Una Lega per il futuro: la colonizzazione del sistema solare/2

Capire per progredire. Gli intellettuali

Il nostro mondo sembra essere in crisi, dunque: crisi di fiducia (per l’assenza di prospettive), crisi culturale (per la difficoltà di assimilare cambiamenti sconvolgenti), crisi politica (per l’inadeguatezza delle vecchie teorie politiche) crisi morale (per il sorgere di problemi etici mai presentatisi prima) e infine crisi di paura (forse la più sconvolgente) per il venir meno, con una rapidità mai vista, di tutta una serie di punti di riferimento cui eravamo abituati. Questa crisi non colpisce solamente le élites intellettuali, che ne sono più consapevoli, ma tocca da vicino tutti gli abitanti del pianeta, anche se generalmente a livello psicologico e non compiutamente espresso e tocca da vicino anche i vari governi che, dietro il riparo delle frasi convenzionali, in generale non sanno (più che in passato) cosa esattamente fare, per impostare una politica che non sia pura e semplice gestione.

Le élites intellettuali, però, che meno dei politici sono affascinate e occupate dal puro tecnicismo dell’Amministrazione e del potere, anche quando hanno una esatta percezione dei problemi e qualche valida idea per risolverli, difficilmente sfuggono al difetto di vedere le cose con un angolatura settoriale, noncurante della visione d’insieme, sia per vizio d’origine culturale, dato dalle loro specializzazioni, sia per snobistica volontà di non uscire dalla turris eburnea delle loro competenze particolari e delle loro posizioni accademiche. Ma soprattutto ciò che manca agli intellettuali, siano essi scienziati, filosofi, letterati o altro, è la dura verifica quotidiana che il potere per sua natura impone, quando lo si esercita o lo si cerca, discriminando tra il possibile e l’impossibile e insieme mostrando continuamente come tutti i problemi siano tra loro connessi, sì da necessitare non di qualche idea più o meno brillante, ma di qualcosa di più generale: di una “Politica”. Di quella politica che, però, i politici di professione talvolta non sanno neanche cosa sia, poiché il potere è un mezzo che ha la tendenza a diventare un fine. Comunque intellettuali, politici o gente comune condividono poi quasi tutti l’atteggiamento di cercare di dimenticare di trattare i problemi riguardanti il nostro futuro (compreso quello se vi sarà un futuro) come tali, pur parlandone in continuazione.

L’impressione che se ne trae è che, quando questi problemi assolutamente generali vengono toccati, la gente (un po’ a tutti i livelli) abbandoni l’atteggiamento razionale con cui, poniamo, si dedica all’acquisto di una automobile o al suo lavoro, per assumere o quello scettico con cui si guarda agli oroscopi o quello fatalistico con cui si guarda alla morte e che in definitiva non veda l’ora di tornare alle sue ordinarie occupazioni (che possono, purtroppo, anche essere attività di governo viste come pura routine).

C’è poi, infine, un’altra categoria di persone che reagisce differentemente, ma che, in generale, può perfino risultare alla fine la più dannosa ed è quella di chi sceglie di mostrarsi generoso ed avvertito sposando l’agitazione per se stessa e, senza porsi veramente il problema di capire, sostiene con eccitazione e fretta le “Sante Cause” più disparate e contraddittorie, vero equivalente sociale del tale che, al momento delle più gravi difficoltà, si mette a sbraitare, supponente e isterico, “fate qualcosa! Fate qualcosa!”, intralciando chi magari qualcosa sta davvero facendo (e come da questi atteggiamenti, tipici di molti, troppi, pretesi ecologisti, possa venire qualcosa di ragionevole è arduo ipotizzare).

C’è in giro, insomma, un’atmosfera che ricorda un po’ la fine dell’altro millennio per la sua diffusa irrazionalità, ma senza affatto, almeno finora, il recupero del senso ottimistico di aver passato il capo. In realtà, non è solo necessario sforzarsi di recuperare la razionalità, nell’impostare delle politiche per il medio e lungo periodo, ma è anche possibile, è possibile proporre delle soluzioni ragionate, pur se non immediate e taumaturgiche, recuperando così in pieno la funzione della politica, che è quella di cercare di prevedere e capire gli avvenimenti, per accompagnarli oppure, se del caso, provare a impedirli o almeno farli svolgere entro confini fissati. La funzione del filosofo politico va recuperata nel suo senso sette-ottocentesco di riflessione generale sulle società, la loro evoluzione futura e la struttura da dare agli stati, funzione diversa da quella dei politologi attuali, occupati solo dallo studio delle società e dei loro meccanismi, come sono adesso o al massimo nel breve periodo.

È il senso naturale e tradizionale della vita che dobbiamo recuperare, una visione tradizionale che è stata messa in crisi anzitutto dalla mancanza psicologica del senso di profondità del tempo e dello spazio, perché la terra – per le antiche generazioni –  era sostanzialmente illimitata ed eterna (la vedevano cioè, come noi vediamo il cosmo ) mentre oggi invece è vista limitata e caduca e inoltre minacciata dalla grave rottura del senso di continuità tra le generazioni, per la mancanza di certezza nel futuro dovuta all’atomica, alle altre possibilità di distruzione di massa, allo sconvolgimento ecologico, alla crescente penuria di materie prime, alla temuta prossima mancanza di cibo e di acqua . Come provare a ricreare condizioni di vita più tradizionali, più simili a quanto abbiamo conosciuto nel corso dei millenni, pur nel contesto profondamente modificato qual è (e ancor più sarà) quello in cui ci troviamo a vivere, è il problema dell’oggi e del domani, il problema di come rifare una realtà a misura d’uomo.

E la risposta, paradossale, è ancora quella del Gattopardo: “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”. Bisogna andare a cercare quello spazio di vita, che qui comincia a mancare, dove c’è, sui pianeti, nel cosmo, bisogna cambiare stile di vita, riferimenti, estetica, tutto insomma, diventando una civiltà spaziale, per non perdere quello che è veramente indispensabile: il senso della continuità delle generazioni inserito in una espansione libera e naturale. Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi. Solo che, qui, il privilegio da difendere non è quello del principe di Salina, ma quello – di tutti – di continuare ad essere uomini. Non basteranno però buona volontà, uomini e donne giusti, intuito e spirito d’iniziativa, se non sapremo padroneggiare la cultura scientifica, se non sapremo, noi, esseri sempre uguali ed antichi, assimilare questa cultura anche in quella parte, che, dal suo esito più impressionante, possiamo definire “cultura nucleare”.

L’atteggiamento mentale oggi dominante è, infatti, quello di considerare i cambiamenti sconvolgenti, introdotti dalla fisica nucleare, dall’informatica, dalla bioingegneria e in generale dalla artificializzazione spinta della vita di tutti i giorni, come qualcosa di così nuovo da dover necessitare non solo di un approccio totalmente nuovo, di un nuovo modo di porsi, ma anche di un uomo nuovo. Tutto ciò è certamente comprensibile, perché traduce una presa di coscienza dell’estrema diversità dei problemi attuali da quelli tradizionali, però è un modo di porsi sbagliato, perché alla fine o si riduce a un semplice modo di parlare e quindi è un’operazione cosmetica, oppure è fondamentalmente fuorviante e porta alla paralisi. Difatti, se si ammette oltre alla necessità di un nuovo modo di porsi, anche l’ipotesi di un uomo nuovo, questo significa che, o pensiamo di aver bisogno di un superuomo per padroneggiare i nuovi processi, oppure che invece di provare a guidare il progresso tecnologico secondo linee e fini voluti, saremmo invece pronti ad esserne condizionati fino ad essere cambiati radicalmente e che il rapporto di interdipendenza, che pure sempre esiste tra l’uomo e le sue creazioni, (tra cui è anche la società) si è completamente sbilanciato a sfavore del primo. Parafrasando il Charlie Chaplin di “Tempi Moderni”, la macchina farebbe allora dell’uomo una macchina e allo stesso modo la burocrazia ne farebbe un nome in un certificato o l’informatica un terminale di network.

Fuor di metafora, l’uomo sarebbe diventato o dovrebbe diventare una “parte”, ubbidiente e affidabile, integrata in un meccanismo complesso sempre più condizionato dalle logiche di sistemi automatici e automatizzanti. E questo non è né necessario né vero. In realtà ciò che avviene è che, poiché l’uomo non può, fortunatamente, denaturarsi per diventare nuovo (i reali cambiamenti evolutivi della specie abbisognano di lunghi periodi) continua a essere un uomo “antico”, in una situazione che lo vede infelice, se non riesce a controllarla secondo i suoi parametri di sempre.

In definitiva, questa richiesta dell’uomo nuovo deriva quindi semplicemente dalla difficoltà che abbiamo incontrato ad avere un progresso politico sufficiente a comprendere e organizzare il progresso tecnologico e l’invocazione dell’uomo nuovo assomiglia alle ingenue aspettative di alcuni semplici, nei primi anni Cinquanta, del robot tuttofare o del Marziano, molto più evoluto e padrone delle vie della pace e della saggezza. I tentativi comunisti di creare un uomo nuovo con la super pressione statale, quelli “politically correct” di farlo attraverso la super pressione sociale (e, ultimamente, anche coattiva) o quelli razzisti di arrivarvi attraverso una selezione biologica, ancor prima che pericolosi (e talvolta criminali) sono ingenui. È allora probabile che sia molto più fattibile e naturale rovesciare l’approccio, invece di pensare a inventare uomini nuovi, cominciare a trattare il nucleare (e le biotecnologie, la cibernetica) secondo le categorie classiche, quelle di sempre (come il bisogno di libertà, il desiderio di felicità, la speranza di un futuro certo) che non sono cambiate, per un uomo che non è cambiato.

Occorre insomma arrivare a dirigere e orientare la tecnologia contemporanea, come sempre abbiamo fatto in passato e per far questo, per arrivare a trattarla nella stessa usuale maniera (con la stessa confidenza) in cui trattiamo le cose che ci sono familiari, dobbiamo riuscire a comprenderla a fondo, a farla nostra, rifiutando l’atteggiamento mentale di considerarla a noi superiore o estranea. Potremo, quindi, dire di avere una cultura (e non più solo un’informazione ) “Nucleare”, quando affronteremo senza complessi di inferiorità (e senza rinunciare a quei principi di umanità, elaborati in millenni, che sono il nostro patrimonio) ma bensì con fiducia in noi stessi, i nuovi problemi morali posti dalla biologia, dalla medicina e dalla fisica, quando avremo veramente trasformato computer e reti in familiari (e non invasivi) strumenti come i giornali e il sistema solare in un luogo che resterà esotico, ma non più alieno. Quando avremo, insomma, imparato a capire fino in fondo la parte buona delle nuove scoperte (per loro natura, come sempre, complessivamente neutre) e a utilizzarle appieno. Come quando, come significativo esempio, gli Stati ottennero, grazie al progresso tecnico, la possibilità di controllare realmente, giorno per giorno, la vita dei cittadini, ma la scienza politica scoperse contemporaneamente che se lo stato cominciava a divenire potente come non mai, era però possibile renderlo anche almeno parzialmente democratico e quei caratteri a stampa, così comodi per diramare ordini di polizia, potevano benissimo essere utili anche per dar vita a una libera stampa e a schede elettorali, mentre in economia, quelle macchine che pure espellevano forza lavoro, potevano però creare accumulo di capitale, dando vita a nuove industrie bisognose di nuova e diversa manodopera. Si trattava di capire e l’uomo, l’homo sapiens, lo fece.

Bisognerà poi cominciare ad interrogarsi sul significato da dare alla parola “naturale”, perché viene ormai utilizzata a indicare una vita o una situazione in cui non vi siano, o siano di poco peso, interventi umani, in opposizione ad “artificiale” per i prodotti dell’ingegno o dell’opera umani. Non vi sarebbe nulla da eccepire se non fosse che, sulla base di questa contrapposizione, la parola artificiale, da semplice qualificazione di una cosa fatta dall’uomo, diventa quasi sinonimo di innaturale, il che non è, perché esiste in natura un animale particolarmente intelligente, l’Uomo, che è “naturalmente” portato a cambiare il suo ambiente, che è “naturalmente” portato a rifiutarsi di vedere i suoi figli senza pelliccia morire di freddo e malattie, che è “naturalmente” portato a inventare strumenti per ridurre la fatica e soprattutto che è “naturalmente” portato a scoprire la ragione profonda delle cose.

Sempre a questo proposito, va ancora e infine ricordato che l’uomo non può “creare” qualcosa dal niente e cioè materia, energia o le regole che le ordinano, ma unicamente scoprire leggi di natura e utilizzarle e che dunque è semplicemente ridicolo, ad esempio, considerare “innaturale” l’energia nucleare, quando l’universo intero è un’immensa officina nucleare e noi siamo attraversati quotidianamente da un’infinità di particelle nucleari di origine cosmica, che però consideriamo “radiazioni naturali” e quindi accettabili, anche nei casi in cui siano magari più pericolose di quelle artificiali.

In conclusione, non è semplicemente più possibile governare senza una cultura scientifica (nucleare, spaziale, genetica) non è più possibile governare bene senza avere introiettato la scienza, la scienza con la sua metodica e le sue informazioni (come a suo tempo fu per il diritto, oggi del tutto naturalmente parte integrante del modo di pensare degli uomini politici). E questo è vero già da molto tempo e per ogni paese. (Giuseppe Pella, grande presidente del Consiglio italiano nei primi anni Cinquanta, propose, senza purtroppo nessun esito, che le due Camere organizzassero corsi di cultura e informazione scientifica per parlamentari, proprio per permettere una maggiore consapevolezza delle decisioni e delle loro conseguenze future).

Fatte queste necessarie premesse, per provare a sgomberare il campo da alcune superstizioni di gran moda, vediamo ora come si possa razionalmente provare a ipotizzare un modello di sviluppo internazionale che cerchi di capire e tradurre in buona politica, i nuovi problemi posti dalla scienza e dalla tecnologia e posti sia dai frutti del progresso considerati cattivi, come la Bomba, che da quelli considerati buoni (come la medicina che ha prodotto la sovrappopolazione).

La distribuzione mondiale di acqua dolce

Vediamo di farlo, perché se non riusciremo a controllare e ordinare in maniera soddisfacente quelle tecnologie, che via via abbiamo messo e mettiamo a punto, potremmo tornare (e molto bruscamente) alla situazione precedente la rivoluzione industriale, con una popolazione di quattro-cinquecento milioni di anime ed una vita media di 35 anni (nell’ipotesi più favorevole). Una cultura scientifica per capire i problemi e governare gli avvenimenti, dunque, ma a livello politico, non semplicemente tecnico, è la condizione per impostare un’azione di Governo che sia veramente tale per gli anni duemila. Bene, se il mondo per molti versi può essere paragonato ad una polveriera e se non possiamo d'altro canto fare a meno di quel ciclo industriale e tecnologico che provoca ciò (perché ci permette anche di vivere in svariati miliardi fino ad una rispettabile tarda età) l’unica soluzione per riottenere la sicurezza è di allargare i confini di questo nostro mondo. E non è certo mettendo le nostre speranze in convegni, appelli e conferenze sul disarmo, tutti basati sull’ipotesi di rendere di colpo l’uomo più saggio e più buono, (convegni in cui la malafede si combina curiosamente con l'idealismo e spesso nelle stesse persone) che si risolve il problema della sopravvivenza della nostra civiltà, in un mondo attraversato da dubbi, tensioni, sospetti ed aggressività, moltiplicati (e non diminuiti) dalla paura e dalla consapevolezza del terrore che potrebbe scatenarsi. Certo, se l’uomo fosse diverso, anche per queste strade forse si potrebbe fare qualcosa, ma diverso da cosa? Diverso… dall’uomo?

L’uomo, in una stessa epoca, è quello che è, nel bene (prevalente) e nel male. E penso che sia Umanesimo questo non credere a un uomo diverso, perché non è affatto rinuncia a cercare di farlo riflettere, ma fiducia e soprattutto rispetto per quello che è naturalmente, mentre mi sembra puro cinismo, quello di coloro che si riempiono la bocca di “uomini nuovi”, di belle parole e di sacri furori, per mostrare quanto essi siano buoni, pii ed informati, che costruiscono immagini pubbliche (e sovente carriere) sullo sdegno e lo scandalo commercializzati, senza però quasi mai perdere un minuto a riflettere, a studiare, a pensare soluzioni, a controllare numeri, perché tanto ai “buoni”, ai professionisti della denuncia e dell’indignazione non servono (a proposito, nel tempo, tante volte si sono visti ragazzi avere “una visione”, resa rinomata dal carisma dalla loro palese ingenuità e spesso tali visioni sono diventate occasioni di culto popolare, con pellegrinaggi, stampa di santini e raccolta di reliquie, ma non sono però mai diventati simbolo di competenza reale, di studi approfonditi o di approccio consapevole ai problemi come si è cercato di fare con Greta Thunberg).

Proviamo tuttavia ad analizzare la via “assembleare” alla sicurezza, proviamo pure ad ammettere, per assurdo, che si riesca veramente a convincere tutti, proprio tutti, potenze grandi e piccole, nazioni cristiane e musulmane, mega stati e organizzazioni terroristiche a rinunciare alla bomba e a tenere sotto controllo strettissimo tutti gli impianti e le tecnologie nucleari, nonché le scorte di materiali fissili sparpagliati in tutto il mondo. Cosa fare allora delle armi biologiche e chimiche, elettroniche e spaziali, metereologiche e “tradizionali” (si fa per dire), alcune delle quali possono essere quasi distruttive come la bomba? Aboliamo anche queste? E come aboliamo il meccanismo che fa sì che basti che un solo stato, in futuro, decida di ricostruirle, per obbligare tutti gli altri a fare lo stesso o rischiare di venire condizionati o assaliti? Vogliamo forse una incontrollata (e incontrollabile) mega-polizia mondiale? E come aboliamo il sospetto, la paura, la volontà di potenza, la tentazione e la stupidità che fanno parte anch’esse della natura umana? E cosa facciamo della diffusione di tutte le tecnologie che permettono di ricostruire rapidamente tali armi, legate come sono indissolubilmente al ciclo industriale? Aboliamo anche quest’ultimo? E di conseguenza aboliamo anche le grandi città che, senza, non possono vivere?

Si può anche ipotizzare, solo che l’effetto sarebbe lo stesso disastro già visto nella Cambogia di Pol Pot, sarebbe la morte di massa, sarebbe l’equivalente di una Terza guerra mondiale, una guerra mondiale ecologica. No, non è questa la strada. Non è questa la strada, perché non è nelle nostre reali possibilità e neanche nella nostra natura. Provatevi a vietare a vostro figlio il fucile a tappo, e, nella grande maggioranza dei casi, vedrete con quale gusto giocherà con quello del bimbo del vicino (se non glielo avrà addirittura sottratto) o guarderà videogiochi pieni di eroi medievali con corazza atomica e spada laser. Non è questa la strada.

Se vogliamo avere un futuro come specie non abbiamo che una soluzione, una soluzione che sia in armonia con la nostra natura e non in contraddizione con essa: la conquista e la colonizzazione del sistema solare (e in un domani, prima o poi, oltre). Questa è l’unica strada per ritrovare delle condizioni al contorno tali da permettere all’umanità di tornare fisicamente ad espandersi ed insieme di riacquistare la serenità della “visione tradizionale”, basata sul senso di profondità dello spazio e del tempo a nostra disposizione.

Popolazione e territorio. Uno spazio di sopravvivenza e libertà

Abbiamo parlato, senza esagerare in pessimismo, di un mondo divenuto una polveriera, ebbene partiamo allora da questo, partiamo proprio dalla polveriera. Non è rendendola ordinata, strettamente regolamentata, piena di sistemi di sicurezza e di controllo che si rende abitabile, per una moltitudine, una polveriera. Per quanti sistemi di sicurezza si possano concepire, una polveriera rimane una polveriera, un luogo con un rischio intrinseco alla sua stessa natura. C’è un solo modo realmente sano di convivere con una polveriera ed è di stare ad una distanza maggiore del raggio massimo di azione di una sua eventuale esplosione, ma per far questo occorre evidentemente dello spazio sufficiente a disposizione. Lo Spazio come dimensione psicologica, prima ancora che fisica e morale, prima ancora che economica. Lo Spazio, perché l’Umanità resti un insieme di Comunità indipendenti di uomini liberi e non un unico grande recinto indifferenziato, senza radici, senza distinzioni e senza storia per nessuno, tenuto insieme a forza dalla superstizione e dalla coazione, una coazione che sarebbe necessariamente sempre crescente, man mano che i naturali freni delle società tradizionali distrutte, venissero sostituiti da vincoli collettivi, statali ed obbligatori.

Lo Spazio, perché ognuno possa sempre sperare di avere un suo orto privato (anche – perché no? – tecnologico) in cui essere padrone in casa sua, lo Spazio perché si possa vivere tutti, da Uomini Liberi. Non abbiamo altro modo per rendere la sopravvivenza dell’umanità probabile e non solamente eventuale, che ripristinare un rapporto esplosivi/superficie “tradizionale”, in cui cioè (come fino alla seconda metà di questo secolo) semplicemente “non sia possibile” distruggere tutto lo spazio vitale con gli esplosivi (o aggressivi di altra natura) a disposizione, perché altrimenti, non illudiamoci, saremo in un concreto pericolo di catastrofe, poiché tutto ciò che è possibile prima o poi accade (che anzi proprio questa è la definizione di possibile). Ma tuttavia può succedere tra dieci, cento, oppure mille anni e distruggerci tutti (o quasi) oppure essere solo una tragica eventualità, come quelle di cui è purtroppo costellata la nostra vicenda umana, una tra le pagine buie della nostra storia, ma di una storia che però continua. Noi non sappiamo come evitare la morte e abolire la cattiveria (magari per decreto) ed è in fondo per queste semplici, antiche, proverbiali ragioni che non sappiamo come assicurare la sopravvivenza per tutti e per sempre (per questo possiamo solo affidarci al Buon Dio, i cui disegni però nessuno può pretendere di conoscere e proclamare nei loro passaggi) ma possiamo però provare ad assicurare la sopravvivenza per molti e per molto tempo e questo dobbiamo farlo.

Vediamo allora come tale approccio porti a soluzioni praticabili, cosa significhi a breve e lungo termine, come si ponga in un quadro generale di misure e ne sia il coronamento. Tale approccio, se seguito logicamente fino in fondo, porta ad una conclusione, conclusione che, come vedremo, è la stessa a cui si arriva anche partendo da tutt’altre considerazioni: la necessità della Conquista del Sistema Solare. Una conquista che, per quanto futuribile, per quanto lontana, per quanto difficile possa sembrare, non è affatto una soluzione necessaria e praticabile solo in una prospettiva remota, ma, al contrario, una scelta che invece potrebbe rivelarsi utilissima già da oggi, a patto che sia dichiarata, diffusa ufficialmente e conosciuta da subito nella volontà politica di procedervi. Vediamo.

Gli effetti positivi immediati (enormi) sarebbero psicologici, noi non sappiamo infatti vivere senza la dimensione del futuro, non possiamo essere felici e inoltre diventiamo aggressivi, ora tale conquista, lontana fin che si vuole, stupefacente fin che si vuole, ma già completamente ipotizzabile, ci darebbe questa prospettiva. È fondamentale, però, che i voli spaziali comincino a essere visti non più solo come imprese scientifiche, come exploit di prestigio, o episodi di una gara internazionale tutta terrestre, ma bensì come le prime tappe della grande conquista spaziale (come in effetti in realtà sono) e che ne vengano accelerate quanto più possibile le tappe, dando così fin da oggi la sensazione della volontà reale di far questo e di una situazione in generale ed effettivo movimento verso di questo.

Perché, ricordiamolo sempre, ogni quattrino speso per i voli spaziali è speso soprattutto per la nostra sopravvivenza e fin da oggi. Non solo e non tanto, perché molto probabilmente è un quattrino levato agli arsenali e agli usi esclusivamente militari (che là sarebbe almeno in parte finito), non solo e non tanto perché le ricadute tecnologiche e gli esiti civili sono quasi immediatamente susseguenti, ma soprattutto perché contribuisce potentemente a fare svanire quella sensazione di claustrofobia, diffusa in quel grande paese elettronico che è divenuta la Terra, che potrebbe ingenerare crisi di follia collettive ( in quest’epoca in cui solo una crisi di follia potrebbe essere l’innesco di una guerra generale ) e infine perché assicura un certo sfogo all'attivismo ed alle spinte espansionistiche degli stati.

La conquista del sistema solare come spazio psicologico, dunque, oltre che spazio di sopravvivenza (la minaccia nucleare), spazio di opportunità (le materie prime) e di libertà (la sovrappopolazione). Anche sul medio termine i vantaggi non sarebbero trascurabili, perché, pur senza confidare su estrazioni massicce di minerali, possibili solo in un futuro più lontano, si può però pensare di ovviare alla scarsezza di certi metalli rari, importantissimi nelle leghe, che potrebbero invece abbondare in altri pianeti, si può pensare alle tecnologie che abbisognano di vuoto spinto o di assenza di gravità ed infine alla possibilità di svolgere operazioni pericolose nello spazio anziché sulla terra. Tutte queste cose nel medio periodo potrebbero essere (saranno) una realtà, ma inizialmente non è qui non il vantaggio principale.

Inizialmente il vantaggio principale della posa in opera di stazioni e laboratori spaziali sarà nella loro stessa esistenza, nel mutamento di prospettiva che determineranno, nello spostare, ad esempio, in parte la spasmodica attenzione che oggi dedichiamo alle vicende politiche di ogni staterello terrestre (con influenze, intromissioni, interventi armati esterni) alle vicende “colonialispaziali. Colonie, sistema coloniale, sistema coloniale spaziale. Ecco la soluzione finale a lungo termine. La soluzione sul cui sfondo tutto quello che riusciremo nel frattempo a fare sul piano dei risparmi, dei controlli, dei trattati, possa così inserirsi, trovando proprio da questa prospettiva una giustificazione piena, una giustificazione che altrimenti sarebbe monca, perché, senza questa prospettiva, tali pur lodevoli sforzi resterebbero dei palliativi, palliativi utili per guadagnare un tempo limitato, ma in attesa di una comunque sempre incombente catastrofe. La conquista del sistema solare o, se volete, navigare per vivere.

La conquista del sistema solare

In buona sostanza, siamo già tanti, ma abbastanza presto saremo troppi. Dobbiamo fare in modo che il nostro spazio di vita torni a essere grande, come quando eravamo pochi e con mezzi di comunicazione, inquinamento e soprattutto distruzione ridotti, quasi inesistenti. Dobbiamo fare in modo che il sistema solare diventi il “Nostro Mare”, dobbiamo imparare a navigarlo. Dobbiamo fare come abbiamo sempre fatto. Lo dobbiamo ai figli, dei figli, dei nostri figli, quelli che praticamente porranno veramente in atto quella conquista del Sistema Solare che noi possiamo solamente cominciare a preparare, ma lo dobbiamo anche a noi stessi, per avere una prospettiva, per dare un senso alla nostra storia e alla nostra vicenda umana, per non immiserirci immaginando una terra isterilita, burocratizzata, senza bambini e senza libertà, oppure invece distrutta in un lampo, sì da dover ricominciare daccapo in pochi, malati e in un mondo devastato. Dobbiamo allora cominciare a sentire il Sistema Solare come nostro, cominciare a vederlo come l'orto di casa, per quanto alieno ancora ci appaia.

Dove siamo

Se cerchiamo di immaginare questo mondo futuro fatto di basi spaziali lontane, di pianeti inospitali resi appena vivibili da sforzi giganteschi, a costi enormi, con la Terra, pur se ancora sovrappopolata, considerata un sogno da privilegiati e ci domandiamo se ci piace la risposta è probabilmente, molto probabilmente, no ed anche a me personalmente non piacerebbe, non piacerebbe affatto, viverci. Ma non significa nulla. Non significa nulla, perché ognuno di noi è marcato dal suo tempo e molto difficilmente potrebbe essere felice al di fuori di questo, ci si provi ad immaginare un uomo e una donna adulti, della corte di Cleopatra, trasportati di colpo nella New York di questo inizio di XXI secolo, in mezzo ai grattacieli, al cemento, alle automobili, alle luci al neon, ai ponti, alle sopraelevate, senza alberi, prati e selvaggina, non credo che gli piacerebbe, eppure… eppure i newyorchesi adorano la loro città. Per il bambino che nasce a New York, quello è il suo habitat normale, il personal computer, che per tanti anziani è una fredda macchina vagamente frigida, è il suo giocattolo preferito e quanti genitori debbono staccarlo a viva forza dal televisore, che per lui è familiare quanto il lettino.

Se il tempo in cui vive è, per ogni generazione, “l’epoca naturale”, la sua epoca esclusiva, vi sono però esigenze generali che sono vere per tutte le generazioni, come la libertà, il benessere, lo spazio personale e sono queste che dobbiamo ritenere fondamentali e sperare in un futuro di salvaguardare. D’altro canto, New York è vivibile, anche perché è una scelta possibile tra le tante, perché è inserita in una nazione dalle sconfinate vallate, con praterie e foreste a poche ore di distanza e con la possibilità, sempre esistente, di poter tornare, se si vuole, ad un modello agreste di vita, anche magari per un solo weekend.

È questa possibilità, forse, che tranquillizza il newyorkese, che lo rassicura e così, proprio allo stesso modo, il mantenere più di una possibilità di scelta, è un ulteriore fondamentale motivo per la conquista spaziale. Anche prescindendo dalle ben dimostrate, fantastiche, capacità di adattamento della razza umana, anche a voler solo comparare, per una mentalità del XX secolo, paura a paura, trovo molto più spaventosa la prospettiva di una terra trasformata in una sola immensa New York, chiusa in se stessa, che quella di uno spazio alieno abitato, magari malamente, ma che lasci alla Terra, grazie proprio alla sua esistenza, ampi spazi verdi, campi e foreste a cui poter tornare ogni volta che possibilità e desideri coincidano, godendosi almeno, nel frattempo, la coscienza che essi esistono, sono là. Ma chi lo farà per primo, chi creerà col suo lavoro, fatica e rischio, le condizioni di vita ingentilita, per coloro che seguiranno? Coloro che lo hanno sempre fatto, coloro che sempre, in passato, sono stati pionieri. Gli esploratori, gli scienziati, i visionari, i militari, i missionari, i capitani di ventura, i perseguitati, gli avventurosi, gli avventurieri, le prostitute e i detenuti, che avranno preferito ciò ad una stanza di prigione. Da questi eterogenei pionieri, con carri in leghe sofisticate e incredibili tende elettroniche, nasceranno le nuove New Amsterdam, Maracaibo e San Salvador, in attesa magari che una seconda ondata, questa volta di Padri Pellegrini, dia forma e struttura alle nuove società. L'atteggiamento di noi cittadini terrestri cambierà col tempo verso di loro, all'inizio li vedremo come eroi, poi come esotici avventurieri, poi come coloniali naif, e infine, dopo tanto, tanto tempo, come una nuova società. A quel tempo il sistema solare sarà davvero il “Mare Nostrum” e Plutone le nuove Colonne d’Ercole. Forse avremo anche qualche Tortuga spaziale.

Comunque, il quadro d’insieme, lo scenario generale, resterà uno: un sistema coloniale, un sistema coloniale spaziale. Questa la sola, vera, soluzione radicale a lungo termine. La soluzione, sul cui sfondo tutto quello che riusciremo nel frattempo a fare, sul piano dei risparmi, dei controlli, dei trattati, dovrà inserirsi, trovando da questa e solo da questa, giustificazione piena, che ogni altra soluzione sarebbe monca perché, senza questa prospettiva, tali pur lodevoli sforzi resterebbero unicamente dei palliativi, palliativi per guadagnare un tempo assai limitato, in attesa di una ancora inevitabile catastrofe. L’esperienza del passato non è mai completamente ripetibile, però spesso lo è in parte, e, in ogni caso, insieme alla logica ed alla sperimentazione, essa è l’unico filo conduttore che si possa utilizzare per affrontare un problema in fase iniziale, anche quando esso è completamente nuovo. Se chi scrive dovesse organizzare praticamente un piano, a lunga scadenza, per l’esplorazione e la colonizzazione dello spazio, l’affiderebbe alla Marina. Certo sarebbero fisici-marinai, biologi-marinai, chimici-marinai, poliziotti-marinai, ma gente di marina. E questo perché le analogie formali della conquista dello spazio con le esplorazioni marittime e le successive colonizzazioni di isole e continenti sconosciuti, sperduti e spesso spopolati, sono notevoli e siccome le analogie formali normalmente sottintendono realtà simili o almeno rette da leggi simili, la marineria, con la particolare “forma mentis” acquisita nel corso dei secoli che costituiscono l’Evo moderno, appare come la più attrezzata, come tradizione a porre in atto tale conquista.

Vediamo. Anzitutto i pianeti del nostro sistema richiamano immediatamente alla mente delle isole immerse nello spazio, come le nostre lo sono nel mare, sono, in entrambi i casi, punti di approdo dove poter sostare, inseriti in un mezzo (là lo spazio, qui il mare) utilizzato solo nel viaggiare. Una “navespaziale (l’uso comune di tale termine non è casuale) deve essere come la nave classica, un'entità (strumento+equipaggio) completamente autosufficiente per tutta la durata della missione ed il suo capitano ha, in entrambi i casi, i poteri ordinariamente attribuiti a un Governo per ciò che attiene l’esecuzione della missione e la vita (anche civile) di bordo.

Per le prime esplorazioni, i mezzi tecnici a disposizione di una nave spaziale saranno solo strettamente sufficienti a compiere la missione affidatale, qualunque errore tecnico o umano, qualunque imprevisto, potrà dunque essere fatale né più né meno come per Colombo o Cook; le esplorazioni spaziali saranno, fatto un rapporto tra gli aumentati mezzi tecnici e le aumentate difficoltà, come lo furono quelle oceaniche, imprese “al limite” delle nostre possibilità. Quando invece si passerà finalmente anche nello Spazio dalla caravella del navigatore genovese, a transatlantici come il Rex, la colonizzazione del Sistema Solare sarà divenuta già realtà. Ma non è solo una serie abbastanza impressionante di analogie formali, che fa venire in mente la Marina, è anche una tradizione culturale, che porta ad uno stile preciso basato su una forte disciplina, su un ancora più forte sensazione di appartenenza, su una estrema correttezza formale ed una ben nota e rigorosa educazione, che, sole, hanno potuto permettere la vita di molti uomini in spazi ristrettissimi, per lunghi e talvolta lunghissimi periodi (che è proprio il caso che di nuovo si riproporrà).

E ancora e infine è sempre una tradizione che “naturalmente” porta a ragionare in termini di lunghe distanze, di vie di rifornimento, di preparazione al rischio, di lontananza da casa. Tra l’altro vi sarà proprio un compito specifico da marina militare e cioè quello di vigilare costantemente, da stazioni di “confine”, su ogni possibilità che un asteroide, con dimensioni tali da spegnere la vita umana, possa nella sua orbita incontrare la Terra ed inoltre di sviluppare e mantenere in efficienza dei sistemi d’arma nucleari, di generazioni avanzate, per distruggere o almeno deviare il pericolosissimo intruso (paradossale, ma non nuovo, armi letali per difendere la vita).

Inoltre, le difficoltà di attrezzare i pianeti con basi permanenti, di rifornirle periodicamente, di utilizzarle per lo sfruttamento, saranno enormi e per molto tempo (50/100 anni?) esse non saranno autosufficienti, ma dovranno essere rifornite dalla marina, proprio come fu per i primi porti dei “nuovi mondi” terrestri.

Tempeste magnetiche, raggi cosmici, ammassi di meteoriti, avarie ai computer di bordo, confrontate con le vecchie tempeste marine, gli icebergs e le fessure nel fasciame; carte astronautiche, ponti radio, correzioni relativistiche automatiche o teletrasmesse dell’orbita, danno un idea dell’enormità delle nuove imprese, ma in fondo per i problemi di un tempo c’era solo la bussola a disposizione; un atmosfera velenosa o la sua quasi totale assenza costituiscono una enorme difficoltà, ma la mancanza d’acqua o di cibo non furono tanto di minor conto a suo tempo. Difficoltà maggiori o minori? Nessuno può ragionevolmente dirlo, non esiste un metodo per fare una comparazione, che sia rigorosa e non intuitiva (è certo, comunque, che Colombo fu considerato un pazzo dai più) ma è molto probabile che, quando le difficoltà saranno comparabili, la conquista dello spazio sarà completata, come è vero il reciproco e cioè che quando la conquista sarà fatta saranno comparabili.

A meno che… a meno che, quando ciò sarà possibile (oggi, domani, o dopo domani), la temperie culturale della specie umana (questa variabile in più dell’umanità) non sia diversa da allora. A meno che lo spirito di avventura e di conquista, la razionalità e il senso orgoglioso di fiducia che ne deriva, la cultura umanistica e il suo senso della storia, non stiano attraversando uno dei momenti (forse ciclici) di eclissi. A meno che la sfiducia, la fuga dalle responsabilità e l’egualitarismo statico, che derivano in uguale misura dal socialismo dogmatico e dalle fobie verdi o politically correct, non deviino l’umanità verso la stagnazione, la rinuncia, il rinchiudersi nell’esistente, perché allora probabilmente non sopravviveremo alle sfide del futuro e l’umanità, ad un certo punto, non continuerà il suo cammino così come la conosciamo e nella sua totalità, poiché – temo – incontrerà una rottura della sua continuità, della sua storia cosciente.

E in questo caso probabilmente finiremo – nei pochi sopravvissuti – per ripiegarci completamente su noi stessi e, per un lungo periodo, per abbandonarci ad uno stato di annebbiamento, in cui lasceremo degradarsi i nostri residui mezzi tecnici e diminuire il tenore di vita delle popolazioni rimaste. Una epoca di decadenza e di oscuramento della ragione, segnata da guerre barbariche, pestilenze, superstizioni e fame alle quali, molto di più che non oggi, non saremo in grado di far fronte e proprio per aver rinunciato, al tempo giusto, ad utilizzare in tutte le sue implicazioni quella tecnica che sola può risolvere il problema dei miliardi di uomini a cui essa stessa, con la medicina e lo sviluppo industriale, ha consentito di vivere. Ma torniamo a pensare “positivo” e al modello navale. Vedremo astro-navi di linea, astro-navi da carico, astro-navi da guerra e ancora astronavi da esplorazione, cartografiche, meteorologiche e (chissà) astro-navi pirata.

Lo spazio come intessuto da vie di navigazione, che consentiranno alle basi spaziali di sopravvivere, affermarsi e crescere, fino a diventare vere colonie. Si arriverà ad un sistema coloniale spaziale. Dapprima Stati Uniti, Europa, Cina e Russia la faranno da padrone, come fu per Inghilterra e Spagna a suo tempo, ma pian piano altre potenze si faranno avanti, il Giappone e l’India dapprima, poi tutti gli altri, fino a far diventare anche lo spazio sede di un colossale scontro d’interessi tra le nazioni mondiali più moderne (europee verrebbe fatto di dire, per come tutto ciò ricorda il colonialismo classico). È un rischio? Forse, ma questa gara ad accaparrarsi il meglio potrebbe assai più probabilmente essere positiva, svuotando la terra delle sue tensioni competitive e trasferendole nello spazio e d’altro canto, storicamente, nessuna guerra coloniale è stata, per l’Europa, catastrofica come quelle combattute per pochi palmi di terra europea o per un’ideologia, una religione o financo per una successione.

Abbiamo detto che gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia, la Cina partiranno avvantaggiati in questa corsa coloniale. È probabile, ma non è detto. Non è detto, perché non sarà unicamente la potenza industriale e tecnologica a determinare, sola, il vantaggio e lo svantaggio, ma anche lo spirito, lo spirito che animerà le differenti nazioni e, qui da noi, sarà dunque nostro il compito di essere all’altezza. Comunque, se l’umanità aumenta all’attuale ritmo, sì che nel 2050 saremo tra 8 e 10 miliardi (con un aumento quasi tutto nei paesi poveri e meno sviluppati), se le riserve di materie prime vanno esaurendosi toccando prezzi via via maggiori, se le densità di popolazione nelle terre abitabili continueranno a crescere come oggi, non ci sono varie soluzioni, ce ne è una sola, che prevede una espansione futura nei pianeti a noi più prossimi.

(2/Continua)

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Aggiornato il 15 dicembre 2021 alle ore 09:45