Il patto dei presidenti

Il Trattato del Quirinale è un evento in chiaroscuro. Ha senz’altro rafforzato la centralità di Italia e Francia nelle politiche europee ed internazionali, e ha aperto a ulteriori scambi commerciali e culturali tra i due Paesi, a iniziative comuni nei settori industriale, sanitario e ambientale, a progetti condivisi per la pace e il sostegno dei Paesi svantaggiati, politiche comuni per il ridimensionamento dei debiti pubblici. Questo è sicuramente il lato, per così dire, chiaro dell’accordo.

Il lato oscuro è meno visibile, ma c’è. Il Trattato è giunto al termine del settennato di Sergio Mattarella e ha ulteriormente incoronato Mario Draghi come uomo della storia. Uso volutamente termini enfatici perché, anche in altre epoche, altri personaggi della storia firmarono patti di acciaio con Stati amici o che in quel momento apparivano tali.

Sia detto senza riserve: gli uomini, lo scenario politico nazionale ed europeo, e il contenuto dell’accordo sono incommensurabilmente diversi da quelli che spalancarono all’Europa e al mondo anni zuppi di sangue. Niente di paragonabile, neppure lontanamente. Eppure, quando due Stati si “uniscono” e arrivano perfino a scambiarsi forze armate e rappresentanti nelle adunanze governative, è possibile che qualcosa di nuovo da contrastare si stia per affacciare: oligarchie economiche straniere, scorribande finanziarie, forze sovraniste estreme o forze teocratiche da fermare? Oppure pandemie vecchie e nuove?

È anche possibile, tuttavia, che questo qualcosa non sia da contrastare, ma da favorire: costruzione di governi allargati per diluire gli interessi nazionali e accogliere quelli sovranazionali, o progetti di Governo concordati con élite finanziarie ed economiche. Il Trattato potrebbe essere l’avvio di percorsi simili o un loro rafforzamento.

Sono solo suggestioni, queste, lo so, e come tali le caccio subito dal discorso. Altri, piuttosto, sono gli indicatori politici sui quali soffermarsi, questa volta certi.

Il primo riguarda la perdita di sovranità: l’accordo intanto sta in piedi in quanto Italia e Francia si cedono reciprocamente una porzione di sovranità. Solo figurativamente, però. In realtà, chi davvero cede sovranità non sono gli Stati, ma i corpi elettorali. È ognuno di noi, alla fine, che cede una porzione della sua sovranità.

Questa cessione porta con sé una conseguenza opaca per la democrazia: l’allontanamento sempre più marcato dei rappresentati dai rappresentanti. Le cinghie di trasmissione del consenso si allentano sempre più, fino a sfilacciarsi e a determinare l’annacquamento della rappresentanza e la crisi dei Parlamenti. Un fenomeno, questo, in corso da anni, come scrive Norberto Bobbio in Il futuro della democrazia e come descrive con efficacia Colin Crouch in Postdemocrazia. Già, postdemocrazia: ritualmente perfetta, sostanzialmente svuotata a favore di centri decisionali vieppiù distanti dai cittadini. E il Trattato sembra essere, proprio, una tessera ulteriore di questo puzzle.

Ed eccoci all’altro indicatore politico. Lo rappresenta molto bene la fotografia posta a introduzione di questo editoriale, che vede Emmanuel Macron, da un lato, Sergio Mattarella e Mario Draghi, dall’altro. Tre esponenti di vertice di due Repubbliche (semi) presidenziali: una, la Francia, costituzionalmente tale, l’altra, la nostra, sempre più materialmente tale.

La mia può sembrare una provocazione, ma non lo è. Il divario tra sostanza e forma, da noi, è ormai sotto gli occhi di tutti ed è il risultato del vuoto di progettualità, pensiero, autorevolezza dei partiti e di una parte della loro classe dirigente, che in gran parte è la stessa che siede in Parlamento, nei Consigli regionali e in quelli comunali.

E se il divario tra sostanza e forma si facesse ancor più evidente nei prossimi mesi, magari subito dopo l’Epifania, che tutte le feste si porta via?

Aggiornato il 30 novembre 2021 alle ore 09:32