Suicidio assistito: di un corpo o di un’anima?

Viene dal Comitato etico dell’Asl delle Marche il primo via-libera alla pratica in Italia del suicidio medicalmente assistito. É la notizia della settimana. Almeno dovrebbe esserlo se non fosse che, per gli esperti del Centro Studi Rosario Livatino, non sarebbe la verità. Essi sostengono che non spetta al Comitato etico decidere: la definitiva decisione di comminare la morte assistita deve rimanere un atto di esclusiva spettanza dei medici del Servizio Sanitario Nazionale. Comunque, il parere al quale è stato chiamato il Comitato etico dal giudice del Tribunale di Ancona non avrebbe accertato la sussistenza dei requisiti stabiliti dalla pronuncia della Corte Costituzionale numero 242/2019 (sentenza “Cappato-Dj Fabo”) per l’accesso legale di un paziente all’interruzione della vita.

Riguardo al requisito della “sofferenza intollerabile”, determinante per la concessione dell’autorizzazione, il Comitato avrebbe rilevato un elemento soggettivo di difficile interpretazione”, difficoltà nel “rilevare lo stato di non ulteriore sopportabilità di una sofferenza psichica”, e “lindisponibilità del soggetto ad accedere ad una terapia antidolorifica integrativa. Mario (nome di fantasia) è un malato tetraplegico che vive da dieci anni immobilizzato in un letto. La sofferenza a cui è costretto lo ha spinto a chiedere ripetutamente l’autorizzazione a togliersi la vita. In questa lunga battaglia Mario è stato aiutato dall’Associazione Luca Coscioni. Le sue prime dichiarazioni dopo il supposto ottenimento del via-libera sono state lapidarie: “Sono stanco e voglio essere libero di scegliere il mio fine di vita. Nessuno può dirmi che non sto troppo male per continuare a vivere in queste condizioni e condannarmi a una vita di torture”.

Umanamente, come non essere dalla sua parte? Come non comprenderne le intime ragioni? Tuttavia, c’è un rovescio della medaglia che non possiamo ignorare. Esiste un problema di coscienza religiosa che interroga la grande maggioranza degli italiani e, per riflesso, i suoi rappresentanti politici i quali non a caso sono stati finora incapaci di assumersi, in sede legislativa, la responsabilità di varare una legge, come peraltro sollecita la Corte Costituzionale, che regoli giuridicamente la materia sensibilissima del fine vita. Spesso ce la prendiamo con i politici che non fanno il loro mestiere, o che lo fanno con disperante lentezza e scarsi risultati. Questa volta non ce la sentiamo di biasimarli. Il caso di Mario investe la dimensione spirituale dell’individuo e il suo rapporto con il divino. Potremmo metterla in termini di culture di appartenenza che possono orientare prospettive bioetiche affatto opposte.

A spanne, parliamo di due paradigmi etici: uno religioso-creazionista il cui fattore dominante è la sacralità della vita; l’altro, laico-evoluzionista, che connette l’esistenza fisica dell’individuo alla qualità del suo svolgersi, dall’inizio alla fine. Il primo assume la vita a bene affidato da un’entità sovraordinata alla persona e perciò intangibile. Per l’individuo “credente nella Creazione” la difesa della vita, a prescindere dalla sua qualità, è un obbligo vincolante e inderogabile. Nella prospettiva laica, invece, prevale il principio di connessione della vita biografica a quella biologica. Cosa s’intende per vita biografica? “L’insieme delle esperienze, delle relazioni con altre persone, delle gioie, dei dolori e delle sofferenze, delle speranze nel futuro, delle attese, degli sforzi per rendere degna e umana la vita” (Tavola valdese L’Eutanasia e il suicidio assistito in Bioetica, 1999). Secondo questo approccio, una vita che deperisce perdendo il suo fattore qualificante può essere interrotta, avendo l’individuo potere sovrano sulla sua esistenza. Siamo al cospetto di una visione che rinuncia all’ipotesi della presenza di Dio nella vita umana, ragiona e sceglie “come se Dio non ci fosse” (Uberto Scarpelli, “Bioetica laica”, Milano, 1988).

Non è di sesso degli angeli che si parla ma di cose drammaticamente reali, dagli effetti devastanti. Mario Coltorti, illustre medico e scienziato, al quale si deve la scoperta delle transaminasi, nel 1992 in un articolo sull’eutanasia, scritto per una rivista di cultura massonica, espose il caso di una donna che, avendo appreso di essere affetta da una neoplasia in fase avanzata, aveva rifiutato di sottoporsi alle cure mediche che avrebbero rallentato la progressione della malattia. La paziente, sebbene consapevole di ridurne drasticamente la durata, sceglieva di continuare a mantenere gli standard di vita praticati prima della scoperta del cancro. In effetti, alla donna non era stata data alcuna speranza sulla possibilità di regressione del male, mentre le cure palliative a cui si sarebbe dovuta sottoporre avrebbero comportato un annichilimento della qualità della vita. L’impatto invasivo delle terapie le avrebbe provocato una perdita d’immagine di sé e una sostanziale impossibilità a mantenere attive e soddisfacenti le proprie interazioni sociali. Per la donna l’isolamento psicologico, al quale sarebbe andata incontro, non sarebbe stato compatibile con la qualità che attribuiva alla vita per poterla giudicare degna di essere vissuta.

Quanti casi conosciamo di eutanasia passiva, cioè di persone che scelgono di morire interrompendo le terapie o semplicemente rifiutando le cure? Sarebbe fin troppo comodo rispondere che lo Stato non ha giurisdizione nelle questioni di coscienza, che invece appartengono al foro interno di ciascun individuo e che, al più, lo Stato deve provvedere a fornire gli strumenti legali dei quali il cittadino può usufruire in piena libertà. Che è poi ciò che chiede la Corte Costituzionale al legislatore: colmare un vuoto nell’Ordinamento giuridico. Ma c’è di mezzo la coscienza, o meglio sarebbe dire, la cultura del rappresentante del popolo che siede in Parlamento, di cui bisogna tenere conto. È ammissibile che il singolo politico chiamato a pronunciarsi sulla materia del fine vita dica: io sono credente e sostengo che la vita sia nella disponibilità di Dio e non dell’uomo, ma da legislatore mi esprimo per affermare il contrario? Esiste una variabile costituita dall’obiezione di coscienza che interviene a condizionarne le decisioni destinate a produrre effetti nella sfera privata del cittadino. Può questo politico negare se stesso e il proprio credo in nome di un interesse collettivo che tuttavia non riconosce essere tale? Una credenza religiosa o una visione spirituale dell’esistenza possono inibire un diritto tanto fondamentale perché unico: scegliere di cessare di vivere? E può l’imperio della legge produrre una separazione concettuale tra la vita e la sofferenza?

Si obietterà: per l’accesso legale al suicidio assistito sono stati individuati dalla Consulta quattro requisiti inderogabili perché l’autorità pubblica competente conceda il nulla-osta. Ma i requisiti fissati sono frutto di convenzioni ed esse tengono conto dei contesti storico-sociali che le producono. In un futuro prossimo, le convenzioni potrebbero cambiare in senso più stringente o, all’opposto, potrebbero estendersi a situazioni non estreme. La definizione di “eccezionale sofferenza” come si misura? Chi la misura? Oggi connessa alla condizione fisica, un giorno potrebbe essere posta in relazione a quella psicologica e morale. Una persona che dichiarasse di vivere un disagio esistenziale tale da rendergli insopportabile la prosecuzione della vita, potrebbe vedere riconosciuto il diritto al suicidio assistito che gli consentirebbe un trapasso più pietoso e incruento rispetto al gesto violento che potrebbe compiere per ottenere il medesimo risultato? E poi: può la comunità accettare di non sanzionare penalmente colui o coloro che aiutino un altro a togliersi la vita?

Sono interrogativi di ardua definizione. Tuttavia, il politico, per quanto se ne possa comprendere il disagio morale, è chiamato a decidere prima che lo faccia il popolo con il referendum proposto dall’Associazione Luca Coscioni sulla tacita introduzione dell’eutanasia attiva ottenibile attraverso la parziale abrogazione dell’articolo 579 del Codice penale che a oggi punisce severamente tutti i casi di omicidio del consenziente. Per coloro che stanno in Parlamento sarà un passaggio sofferto e drammatico. Sarà quel politico, pigiando un tasto all’atto della votazione in Aula, disposto a certificare la “morte di Dio” e a mettere una pietra tombale sulla rappresentazione dell’esistenza umana condotta “come se tutto fosse voluto, tutto fosse cenno, tutto fosse escogitato e inviato all’uomo per la salvezza della sua anima” (Friedrich Wilhelm Nietzsche)? Chi conosce la risposta giusta e non si chiami Nietzsche scagli la prima pietra.

Aggiornato il 27 novembre 2021 alle ore 09:50