La ricetta sbagliata di Giorgetti

mercoledì 29 settembre 2021


Se Giancarlo Giorgetti, alter ego di Matteo Salvini nella Lega, all’Università avesse frequentato Medicina invece d’impegnarsi a fare il “bocconiano”, non è detto che sarebbe diventato un bravo medico. Già, perché il suo handicap non è indovinare la diagnosi ma azzeccare la terapia. È un limite che ha mostrato anche ieri l’altro quando, intervistato da “La Stampa”, a proposito della (tumultuosa) scena politica dei prossimi mesi, ha concluso che l’unica soluzione possibile per salvare il Paese sia di spedire Mario Draghi al Quirinale e, immediatamente dopo, andare a elezioni politiche.

Ma è sicuro che sia questa l’unica via praticabile? Sostiene Giorgetti che appena chiuse le urne delle Amministrative i partiti si tufferanno nella campagna elettorale per le Politiche del 2023. Ciò comporterà una costante fibrillazione per l’odierna maggioranza, che Mario Draghi non potrà reggere. La coalizione entrata in contatto con i problemi sensibili si spaccherà. Previsione: “Da gennaio la musica sarà diversa. I partiti smetteranno di coprirlo (Mario Draghi, ndr) e si concentreranno sugli elettori”. Ineccepibile. Benché se ne stia parlando poco, le urne di domenica e lunedì prossimi avranno un forte impatto sul quadro politico nazionale. Asserire il contrario è una menzogna. Sarà pure un voto locale, ma sul piatto delle Amministrative sono aperte tre sfide che attendono risposta dalle urne. La prima. Riguarda lo scontro tra il centrodestra e il centrosinistra nella doppia formulazione del “con” e “senza” i Cinque Stelle. La coalizione progressista è candidata a vincere nelle cinque città più importanti e popolose chiamate al rinnovo delle Amministrazioni comunali. Se il centrodestra strappasse una tra le poltrone di sindaco in palio a Napoli, Roma, Milano, Torino e Bologna sarebbe un buon risultato e una mezza sconfitta per la sinistra. Se dovesse conquistarne due, e una fosse quella capitolina, sarebbe un trionfo e un disastro per il campo progressista.

La seconda. Le cronache di questi ultimi anni raccontano dell’evaporazione del grillismo e della quasi scomparsa dei Cinque Stelle dal consenso degli italiani, nonostante i sondaggi (realtà virtuale) dicano il contrario. Sarà così? Il partito di Beppe Grillo, ceduto in comodato d’uso all’ambizioso Giuseppe Conte, si presenta al voto con due sindaci uscenti: di Roma e di Torino. In entrambi i casi, per questa tornata elettorale, il Cinque Stelle non ha fatto squadra con il Partito Democratico, preferendo ritentare la corsa in solitario. Al momento, appare improbabile che nelle due grandi città vi possa essere un bis grillino. Ragion per cui conta stabilire non se vinceranno ma in quale misura perderanno. Bisognerà valutare di quanto verrà depotenziato il loro peso politico. Stesso dicasi per i risultati di lista che otterranno in tutti quei Comuni in cui si presentano alleati del centrosinistra, a cominciare dalla delicatissima piazza di Napoli, città da cui provengono i principali personaggi del grillismo di questi anni: Luigi Di Maio, Carla Ruocco e Roberto Fico.

La terza. Non serve fingere che non sia così, nel centrodestra è in corso un regolamento di conti tra Lega e Fratelli d’Italia. La posta in gioco è la leadership del centrodestra. Giorgia Meloni, forte dei sondaggi (ingannevoli), ci crede e prova a dare la spallata allo scomodo alleato insidiandolo in casa sua, in quel profondo Nord che è da sempre l’avamposto fortificato del leghismo. Se alla barca dei conservatori riuscisse il colpaccio di mettere la prora davanti all’armo salviniano sarebbe inevitabile per il “Capitano” finire sulla griglia di un processo interno al partito, destinato a minarne la leadership. È chiaro che uno scenario tanto intricato giustifichi la previsione di Giancarlo Giorgetti sulla crisi annunciata di una maggioranza di sostegno al Governo Draghi che è nata tenendosi con gli spilli. Ma è sulla soluzione indicata che non ci siamo. Comprensibile che voglia mettere al sicuro una risorsa della Repubblica di assoluto valore qual è Mario Draghi.

Tuttavia, l’ex capo della Banca centrale europea non è propriamente un’opera d’arte o un bene paesaggistico da dichiarare patrimonio dell’umanità. È pur sempre un uomo in carne e ossa, con un carattere abbastanza duro per piegarsi all’imprevedibilità del Fato. Chi l’ha detto a Giorgetti che, una volta approdato al Quirinale, super-Mario sciolga le Camere? È più probabile che “l’uomo della Provvidenza” imponga ai partiti litigiosi un “Governo del Presidente”, affidato a una personalità di fiducia in grado di proseguire nel solco da lui tracciato. Sarebbe, però, un modo spiccio e neppure elegante di prolungare sine die la stagione del commissariamento della democrazia italiana, sorta con la marea montante del giustizialismo nei primi anni Novanta e nutritasi di un pernicioso qualunquismo antipartitico che nel tempo ha prodotto molti frutti avvelenati: lo strapotere della magistratura, il Governo Monti, la resa incondizionata all’europeismogermanocentrico”, la sinistra in pianta stabile nella stanza dei bottoni, il progressismo multiculturalista e il grillismo.

Per il Partito Democratico e per i Cinque Stelle sarebbe manna dal cielo, per la destra una iattura. Evidentemente a Giorgetti sembra non dispiacere la deriva tecnocratica, giudicando quanto poca stima rimponga nell’istituto parlamentare. Non è stato forse lui a dichiarare testualmente al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini nel 2018, cioè ieri: “Il Parlamento non conta più nulla perché non è più sentito dai cittadini che lo vedono come luogo dell’inconcludenza della politica. E se continuiamo a difendere questo feticcio della democrazia rappresentativa sbagliamo e non facciamo un bene alla stessa democrazia”?

Adesso l’eminenza grigia leghista cerca una soluzione. L’unica è trovare, tra i “Grandi elettori”, i 50 voti che mancano per eleggere un presidente della Repubblica proveniente dal centrodestra. E Silvio Berlusconi, per le ragioni che da tempo ci sforziamo di rappresentare, sarebbe l’uomo giusto per questo traguardo. L’opinione pubblica apprezzerà la scelta, sconfessando una volta per tutte il provincialismo bigotto e piccolo borghese col quale i circoli progressisti e radical-chic, la sinistra e i media di regime con deplorevole morbosità hanno curiosato, nel nome dell’ambiguo valore della trasparenza delle vite private dei personaggi pubblici, dal buco della serratura della camera da letto del vecchio leone di Arcore. Per fortuna di Berlusconi e nostra, gli italiani sono di gran lunga migliori dei poteri marci che li dominano da un trentennio. A essere pignoli: dal 17 febbraio 1992.


di Cristofaro Sola