Lega-Salvini: anatomia seria ma non grave

Quattro fiducie in 48 ore, proteste delle opposizioni. Due consiglieri passano con il Carroccio a Milano. L’ira di Forza Italia. Green Pass: metà Lega diserta. Sempre più divisa: i nostri parlamentari sono liberi, dice il leader Matteo Salvini. Scintille fra Salvini e Antonio Tajani. Alla Camera: 51 non giustificati. Scontro anche con il Partito popolare europeo. Matteo Salvini su Massimiliano Fedriga anti no vax: ogni idea va rispettata.

È la sintesi di una giornata, una delle tante, nelle quali sul palcoscenico della politica lo spazio più ampio è per un tenore come Salvini, un paio di contralti del gruppo di Giancarlo Giorgetti e un coro, quello della Lega, dai suoni disarmonici e richiamati all’ordine, facendo rimanere a casa gli stonati. Il problema della crisi della Lega è dunque evidente, evidentissimo e quello di Salvini pure, ma diverso: staremmo per dire più grave ma certamente non serio. Lo sfondo di un simile spettacolo, a parte il maestro che tira avanti senza remora alcuna, poiché Mario Draghi ha capito anche questo trucco per non offrire il destro a qualsiasi colpo basso persino casuale, rimane sempre il dualismo in una Lega di lotta e di Governo in cui la salita all’Esecutivo ha acceso la miccia e rinfocolato la guerriglia fra i pro e i contro.

È una storia risaputa ma, nel contempo, un punto fermo squisitamente politico peraltro non sconosciuto nelle varie Repubbliche e dai suoi leader quando, per esempio, le divisioni interne passavano borderline, fra destra e sinistra e si rischiavano scissioni a meno che il maestro riuscisse a mettere d’accordo gli stonatori. Insomma: toccava ai leader.

Il problema di Salvini? Che sia un leader nulla quaestio e le sue referenze, come quelle di Giorgia Meloni, stanno nel risollevamento di un partito dai minimi storici a cifre doppie, al di là dei cambiamenti, anche radicali, della musica ideologica. Ed è in questi cambi di registro musicale (politico) che un leader corre i veri rischi, tanto più il Capitano che, tipico di uno dalla campagna elettorale permanente, ha sempre privilegiato la visibilità, la lotta di opposizione con sprazzi governativi ma su temi identitari come l’immigrazione, gli sbarchi, la sicurezza.

La chiamata generale alle armi nel maxi Governo Draghi gli ha tolto lo spazio oppositorio consegnato alla Meloni che lo assilla quotidianamente, un assillo che non riesce a nascondere, purtroppo per lui. Ed è già in questa vivida e gelosa preoccupazione dei voti, per ora solo nei sondaggi, con le elezioni dietro l’angolo, che la sua leadership mostra le prime crepe producendo a sua volta un cambio di passo salviniano abbandonando i grandi temi che non mancano, a cominciare dalla realtà di Governo rispetto alla sua rappresentazione politica, per non dire di un grande progetto per la ripresa o di un ampio disegno interno al centrodestra sulle orme delle lucide indicazioni berlusconiane e così via.

E che dire della scelta dei capilista – come a Milano – e tacciamo ben sapendo che l’opzione su Luca Bernardo è stata quanto meno distratta, poco discussa, per niente valutata con attenzione e dal peso non secondario nel bilancio delle elezioni. Questo cambio di passo è un vero e proprio rallentamento, perché ha fatto slittare il leader su un terreno tanto denso di fatti e fatterelli quanto pieno di richiami ma tutti, più o meno, di piccolo cabotaggio su schemi che non a caso hanno favorito assenze vistose e corse al metterci impiastri ma con la sensazione, che è poi un fatto, che simili stonature sono anche il frutto di una ambiguità che non poteva e non potrà giovare al leader, il quale non più tardi di qualche ora fa si è sentito tirare le orecchie da Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, a proposito di suoi flirt coi no vax.

Succede sempre così quando si rifiuta di volare alto con proposte di ampio respiro e ci si misura su provvedimenti sanitari e interventi medici (compiti spettanti loro e ottimamente eseguiti dai bravi Governatori leghisti) da contese di basso profilo, da fatti e fatterelli che non appartengono al registro di un leader, a maggior ragione se si accendono contese, tipo quella del no vax, che avrebbe dovuto ricevere fin dall’inizio il fischio del fuorigioco in una partita per la vita e per la morte. Invece siamo arrivati ai flirt.

Aggiornato il 24 settembre 2021 alle ore 11:23