Carola Rackete: lotta continua

Carola Rackete non andrà a processo. Lo ha deciso il Giudice delle indagini preliminari del tribunale di Agrigento, Alessandra Vella. Per chi non ricordasse, la Rackete è la giovane tedesca che, al comando della nave Sea-Watch 3 battente bandiera olandese e gestita dall’omonima Organizzazione non governativa (Ong) con sede a Berlino, nella notte del 29 giugno 2019 violò il divieto d’ingresso nel porto di Lampedusa e aggredì, forzando la manovra di attracco in banchina, una motovedetta della Guardia di Finanza. L’intento fu quello di sbarcare in territorio italiano 42 immigrati raccolti davanti alle coste libiche 17 giorni prima.

L’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, aveva chiesto ai competenti uffici giudiziari di far rispettare il divieto d’ingresso nelle acque nazionali alle navi delle Ong dedite al trasporto d’immigrati irregolari. Divieto ignorato in segno di sfida all’autorità italiana. Per quell’atto di forza che aveva messo in pericolo la vita dell’equipaggio della motovedetta, la Procura della Repubblica del tribunale di Agrigento dispose il fermo pre-cautelare della Rackete con l’accusa di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra (articoli 337 Codice Penale e 1.100 Codice della Navigazione). Ma l’ordinanza di arresto ebbe vita breve perché non venne convalidata dal Gip, Alessandra Vella, la medesima persona che ha deciso per il non luogo a procedere.

In quella circostanza la Procura agrigentina ebbe parole durissime nei confronti del Gip Alessandra Vella, accusandola di non aver “valutato correttamente i presupposti della misura pre-cautelare adottata nelle forme con le quali è chiamata a farlo”. Nel corso della battaglia legale il 16 gennaio del 2020 è intervenuta la Corte di Cassazione che ha dato ragione al Gip, rigettando il ricorso presentato dal Procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio e dall’aggiunto Salvatore Vella contro l’annullamento dell’arresto. La Suprema Corte ha escluso la sussistenza dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra, contestati alla capitana. Tradotto: la Rackete non doveva essere arrestata, perché non aveva aggredito una nave da guerra ma una pilotina della Guardia di Finanza e perché, a giudizio della Corte, il dovere di sbarcare i migranti in un porto sicuro era prevalente rispetto al dovere di ottemperare a un ordine impartito dalla polizia giudiziaria. Tali motivazioni sono state integralmente trasfuse nella sentenza di archiviazione.

Ora, le sentenze si rispettano. Sempre e comunque. Tuttavia, possono essere criticate. Al riguardo, lo diciamo dritto per dritto: quella emessa dal Gip di Agrigento è un’indecenza assoluta. Non soltanto perché, come si domanda a ragione Giorgia Meloni, che rispetto può avere l’Italia nel mondo se viene permesso di umiliare lo Stato in questo modo senza subire alcuna conseguenza? Evidentemente, scarso. Ma il danno maggiore che discende da tale improvvida decisione sta nel precedente che crea. D’ora in avanti, qualsiasi imbarcazione che svolga il servizio di traghettamento degli immigrati clandestini dagli specchi di mare libici alle coste italiane potrà ignorare un alt impartito dalle forze dell’ordine e procedere indisturbata per la propria strada. Nulla si potrà obiettare quando le organizzazioni pro-migranti invocheranno il presunto stato di necessità nei trasferimenti in Italia di consistenti masse di clandestini. E poi, diciamola tutta, la Rackete ha posto in essere una condotta orrenda, inaccettabile per chi minimamente conosca la legge (non scritta) del mare.

C’è un filmato che riprende gli eventi della notte del 29 giugno 2019. Documento che testimonia senza ombra di dubbio la condotta criminale della “capitana” tedesca. Prova che il Gip ha scientemente ignorato per salvare, insieme alla persona, un’idea partigiana di accoglienza degli immigrati. Per taluni magistrati non occorre prendere la tessera di un partito per fare politica: attraverso le sentenze possono fare di più per rendere un buon servizio alla propria ideologia. Il pericolo di vita per le persone ospitate a bordo della Sea-Watch 3 non c’era. A giudizio della Procura agrigentina “il place of safety non richiederebbe Ia necessità di condurre a terra i naufraghi. La stessa nave Sea Watch3 avrebbe dovuto essere considerata place of safety, dal momento che i naufraghi erano stati ivi adeguatamente messi in sicurezza ed assistiti in attesa di una individuazione in via definitiva del luogo di sbarco. Le condizioni del mare erano tranquille e gli immigrati raccolti in mare avevano ricevuto l’assistenza necessaria dagli operatori presenti nel porto di Lampedusa”.

Nulla avrebbe impedito alla Rackete di ancorare a ridosso dell’imboccatura del porto e attendere l’autorizzazione all’ingresso. Invece, no. Lo scopo effettivo della “capitana” era di sfidare il divieto imposto dal ministro dell’Interno nell’azione di contrasto alle Ong. Serviva il gesto eclatante: violare gli ordini ricevuti dalle autorità di polizia marittima e attraccare in banchina. Ma lì c’era la motovedetta 808 della Guardia di Finanza che manovrava. Con quale coraggio il Gip ha ignorato, tra le evidenze processuali, quelle immagini terribili? Dal filmato lo si vede chiaramente: la Rackete avrebbe dovuto dare “l’indietro mezza forza” al motore di dritta (destro) per allontanare la poppa della nave in rotta di collisione con la motovedetta e, successivamente “l’indietro pari adagio” ai motori per retrocedere fino alla distanza di sicurezza interrompendo l’accostata alla banchina. Invece, ha fatto il contrario: ha dato una spinta con il motore di sinistra per imprimere maggiore forza all’accostata a sinistra. Provvidenziale a quel punto è stata la decisione del comandante della motovedetta di sfilarsi dalla posizione a ridosso della banchina. Se non lo avesse fatto la sua pilotina (16,8 tonnellate di dislocamento) sarebbe rimasta schiacciata tra la fiancata della Sea-Watch3 (1.371 tonnellate di dislocamento) e la murata del molo. Con quali conseguenze per la vita dei militari a bordo è facilmente intuibile.

La manovra della Rackete è stata deliberatamente aggressiva e il fatto che un giudice le consenta di farla franca, col pretesto che l’imbarcazione della Guardia di Finanza non l’abbia considerata nave da guerra, nonostante una consolidata giurisprudenza in senso contrario, è un insulto al buon senso e al rispetto delle regole. Ci consentirà la dottoressa Alessandra Vella una domanda: se, per ipotesi, il comandante della motovedetta, invece che lasciare la posizione, avesse deciso di resistere ordinando di aprire il fuoco contro il ponte di comando della nave che stava compiendo l’aggressione violenta, quale sarebbe stato l’esito delle indagini a carico del militare? Per lui sarebbe valso lo stato di necessità come scriminante per un eventuale reato di omicidio? E poi, perché far decadere l’ipotesi della resistenza a pubblico ufficiale? Si prenda il caso dell’automobilista che non si ferma all’Alt della polizia o dei carabinieri a un posto di blocco.

La Cassazione ha stabilito che integra gli estremi del reato di resistenza a un pubblico ufficiale il comportamento di chi, per sottrarsi a un controllo di polizia, sia fuggito a bordo della propria auto, realizzando una condotta idonea a porre in pericolo la pubblica incolumità e volta a creare una coartazione psicologica indiretta dei pubblici ufficiali operanti. E non è ciò che è successo a Lampedusa con la manovra criminale della Rackete? Dobbiamo concludere che quel che vale sulla terraferma non valga in mare? Dopo il proscioglimento, la signora Carola Rackete non ha avvertito il bisogno di chiedere scusa alle nostre forze dell’ordine per il comportamento della notte del giugno 2019. Al contrario, festeggia e rilancia. Incita via Twitter a “essere solidali con le persone che lottano contro quelle strutture che esercitano un potere razzista e che mantengono le ingiustizie senza cambiarle. Questa lotta è lontana dalla fine e tutti noi dovremmo farne parte”. A fronte di un così lodevole proposito non desideriamo essere da meno. Auspichiamo, pertanto, che se la signora Rackete dovesse ritrovarsi nelle condizioni di aggredire nuovamente un’unità navale delle nostre forze dell’ordine allo scopo di riaffermare i suoi intenti ideologici, si possa imbattere in un tutore della legge italiana meno disponibile a dargliela vinta.

Aggiornato il 21 maggio 2021 alle ore 09:10