Zone “no-go”: dove i multiculturalisti disintegrano l’Europa

La Danimarca ha deciso di limitare a un massimo del 30 per cento il numero di residenti “non occidentali” nei quartieri ad alta densità migratoria. Lo ha annunciato qualche giorno fa il ministro degli Interni danese, Kaare Dybvad Bek. La ragione è che troppi stranieri non occidentali in un’area ristretta “aumentano il rischio di nascita di società religiose e culturali parallele”, dove fioriscono illegalità di vario tipo e vengono applicate norme in contrasto con la Costituzione liberale danese. Si tratta del primo caso di un governo europeo che prenda misure concrete, per limitare un’eccessiva concentrazione di immigrati non occidentali in determinate città, borghi, quartieri o periferie.

Sono rimaste, infatti, senza conseguenze pratiche finora le dichiarazioni del presidente francese, Emmanuel Macron, che nell’ottobre dell’anno scorso (subito dopo la decapitazione del professore Samuel Paty ad opera di un fondamentalista islamico), promise che la Francia (dove si aggira sui media lo spettro della “partition”, lo “smembramento” della Repubblica), avrebbe condotto una “lotta al terrorismo e al separatismo islamista”. Ugualmente senza misure concrete sono rimaste anche le parole della cancelliera tedesca Angela Merkel, che nel 2018 ammise che anche in Germania ci sono delle “aree no-go” aggiungendo che “lo Stato dovrebbe fare qualcosa in merito”.

Non passa quasi giorno che una qualche notizia di violenza contro le donne (europee o immigrate), o di terrorismo o di spaccio di droga o a scontri culturali e di mentalità non provenga da una di quelle centinaia di aree europee, che i giornali europei chiamano – con una certa enfasi – le zone “no-go”, intendendo quartieri o interi borghi e città “off-limits”, dove nemmeno la polizia potrebbe entrare. I francesi le chiamano “zone urbane sensibili” e, secondo il ministero dell’Interno di Parigi, sono “circa 150” sparse un po’ dovunque sul territorio francese. In realtà, le forze di sicurezza degli Stati europei hanno ancora – e finora – abbastanza uomini e mezzi per entrarvi ed imporre, se volessero, le leggi dello Stato. Ma i governi europei hanno preferito, finora, ignorare e negare il problema, non imporre le leggi dello Stato, lasciando a quelle zone un’autonomia eccessiva e perniciosa per l’integrità della società ospitante e per la sicurezza pubblica, inclusa quella della maggioranza degli immigrati che ci finiscono dentro.

L’Europa oggi ne è cosparsa e quelle zone sono già centinaia, crescono ogni giorno in numero e consistenza. Sono zone d’Europa dove dominano vestiari, colori, cibi ed odori esotici. Nulla da eccepire in questo. Anzi. È il bello della società multi-etnica, liberale e pluralista. Ma dietro la retorica dell’arricchimento culturale, del colore, del pluralismo culinario e del vestiario, si nasconde ben altro. Si nasconde la realtà di zone dove le norme giuridiche della civiltà europea laica e liberale non vigono più e vigono, invece, altre norme diverse e contrarie. È l’effetto del progetto multiculturalista, teorizzato dai chierici del politicamente corretto e sposato da decenni, per opportunismo, superficialità e insipienza, da diversi governi europei. È quel progetto, nato da menti occidentali e applicato spontaneamente da governi occidentali, che ha creato quei ghetti, o enclave “no-go”, dove gli stessi governi hanno incoraggiato la conservazione e la reviviscenza di costumi e norme (anche giuridiche) estranee. Anche quelle più illiberali che spesso sono in conflitto con le leggi e le Costituzioni del Paese ospitante.

Nel caso di molti enclaves musulmani, l’alcol e la carne di maiale sono di fatto vietati, le rare donne in giro circolano con almeno il capo coperto e talvolta avvolte nel nero burqa, le relazioni e soprattutto i matrimoni di una musulmana con un uomo cristiano sono malvisti e, anzi, vietati e spesso puniti con metodi extra-giudiziali e violenti. La poligamia non è rara, le mogli possono essere picchiate impunemente dai mariti, la droga viene spacciata liberamente. Per di più, in quelle zone dominano i membri (spesso armati) dei gruppi più radicali salafiti che, dietro il pretesto del tradizionalismo islamico, vi possono impunemente commettere prepotenze, reati ed illegalità punibili per il resto della popolazione.

Nelle loro moschee (alcune delle quali controllate da imam salafiti) agiscono tribunali della Shari’a che applicano, come se fossero sul territorio di uno Stato teocratico, le norme della legge divina islamica, spesso in conflitto con le norme costituzionali dei Paesi ospitanti, e cioè con i diritti umani (dell’uomo e della donna) e con la loro parità ed eguaglianza di fronte alla legge. In Inghilterra, le sentenze dei tribunali della shari’a (Islamic Courts) hanno da tempo ricevuto persino un riconoscimento ufficiale non solo de facto, ma anche de jure, in materie di diritto familiare ed eredità. Ma per tutto questo sono da biasimare gli ideologi (in origine tutti occidentali poi seguiti da ideologi extra-occidentali) del multiculturalismo, nemici, spesso mascherati, della cultura occidentale, e i governi europei che li hanno seguiti. E non certo gli immigrati che pensano e agiscono secondo la propria cultura. L’argomentazione principale dei multiculturalisti è che gli immigrati in Europa avrebbero “il diritto” di viverci “come a casa loro”, ma il diritto comune generale non sarebbe “sufficiente” a garantire loro una perfetta e sostanziale eguaglianza di trattamento. A tale fine, li si è voluti considerare come dotati di fatto di speciali immunità e prerogative “culturali” e di “diritti speciali comunitari”. Di qui l’idea di favorire la formazione di ghetti-enclave, dove potessero “vivere e sentirsi a casa loro” che, però, altro non sono che aree di “non-Europa” in Europa: aree in latente e spesso patente conflitto culturale, con la giurisdizione e la popolazione autoctona.

Un primo paradosso è che in quelle aree si costringe gli immigrati a vivere in Europa secondo costumi e norme considerati primitivi, retrivi e abrogati persino “a casa loro”, e cioè nei Paesi a maggioranza musulmana. Per di più in quelle enclave si è ovviamente creato un dominio delle forze più organizzate, che sono anche le più retrive e fondamentaliste (i salafiti) ed ovviamente le più forti (anche perché violente e spesso anche armate). A queste ultime le pratiche multiculturaliste hanno consegnato il controllo politico e ideologico su individui, molti dei quali sono fuggiti dai loro ambienti nativi, oltre che per ragioni economiche anche per sfuggire al controllo tribale, tradizionalista e comunitario subito in patria e per cercare in Europa la società dei diritti e delle libertà, oltre che del benessere. Il risultato paradossale è che gli immigrati che finiscono nelle zone “no-go” non vivono come “a casa loro”, ma persino peggio.

Il paradosso ulteriore è che i fondamentalisti, che nei loro Paesi d’origine non riescono a restaurare le norme ed i costumi più retrivi e illiberali, riescano a farlo solo in Europa grazie all’appoggio ideologico dei multiculturalisti occidentali e alla distrazione dei governi europei. Per questo i fondamentalisti definiscono l’Europa “dar al Islam”, territorio dell’Islam, dove – secondo diversi imam – è opportuno e doveroso stabilirsi, perché vi è possibile “vivere l’Islam integrale” più e meglio che negli stessi Paesi musulmani; dove vige, per effetto del nazionalismo arabo laico del Novecento, una certa separazione tra legge civile e legge divina.

Un importante esempio è la poligamia, abrogata dalla legge civile della gran parte dei Paesi musulmani (dove viene riconosciuta legittimità solo alla moglie sposata in municipio, ma non anche alle altre mogli sposate solo in moschea) e che oggi trova paradossalmente un riconoscimento surrettizio e “de facto” (e spesso anche de jure come si deduce da alcune sentenze anche italiane) in molti Paesi europei. La stessa cosa può dirsi della segregazione e sottomissione delle donne e persino della violenza ai loro danni tra le mura domestiche e fuori. In particolare, queste usanze tribali, punite dalla legge civile nella maggioranza dei Paesi musulmani, tornano in auge de facto nelle zone “no-go” sparse sul territorio europeo.

Queste ultime sono diventate di fatto o territorio dell’Islam, dove vige, almeno di fatto, la shari’a (legge divina islamica) o addirittura sono terra di nessuno dove vige la legge del più forte, che in molti casi si identifica con i membri (spesso armati) dei gruppi salafiti. A chi può rivolgersi in una zona no-go una donna malmenata o violata?

Ma c’è di più: la società multiculturale (da non confondere con la società multietnica, che è fisiologica in regime liberale) disintegra la società ospitante, creando comunità parallele e cioè appunto quei ghetti isolati, dove gli individui immigrati vengono restituiti all’immobilità delle loro culture tradizionali spesso illiberali per i diritti umani. Tra queste tradizioni vi è, per esempio, quella delle mutilazioni genitali delle bambine (una tradizione africana non islamica, ma tollerata da molti imam africani). Chi controlla nelle zone no-go che questi orrori non avvengano? Nessuno.

Quelle tradizioni allogene – anche le più inaccettabili – vengono incredibilmente legittimate dall’ideologia multiculturalista, che le considera alla stregua di beni culturali o di reliquie sacre da “rispettare”, e cioè da preservare e conservare come sotto una campana di vetro. In base al loro relativismo culturale anti-eurocentrico i multiculturalisti affermano, poi, che tutte le civiltà e le culture avrebbero “un eguale valore” e sarebbero meritevoli di “un eguale rispetto”. (D’accordo sul rispetto, ma perché dovrebbe essere obbligatoriamente “uguale” se contrario alla cultura europea? Si potrebbe obbiettare).

Ma c’è molto di più: la civiltà occidentale secondo quei chierici del progressismo multiculturale sarebbe in realtà l’unica a non meritare alcun rispetto, perché “colpevole” dei peggiori crimini della storia; e sarebbe perciò da superare, recidendone le radici (innanzitutto quelle cristiane) e dissolvendola in un indistinto calderone multiculturale. Quel progetto politico multiculturalista, quindi, si pretende “progressista e liberale”, ma in realtà è conservatore, illiberale e radicalmente avverso alla civiltà europea laica, cristiana e liberale. Esso tende a conservare e perpetuare le tradizioni allogene più vetuste, più illiberali – e persino disumane – mentre tende a sradicare le tradizioni laiche e liberali europee.

Su queste basi il progetto multiculturalista converge ideologicamente con le tendenze islamiste salafite, che vi trovano una utile “sponda” al loro ultra-tradizionalismo e una conferma del loro odio anti-occidentale. I multiculturalisti ed i governi europei da essi influenzati forniscono, così, ogni giorno armi ideologiche e politiche anti-occidentali ai gruppi identitari più fondamentalisti e violenti. La loro convergenza ideologica e politica si realizza, soprattutto, nelle zone europee no-go che così sono non solo aree di non-Europa, ma sono anche aree di anti-Europa… in Europa. Sono zone che, anziché creare integrazione, generano disintegrazione, isolamento e separazione e dove cova lo scontro di civiltà che, in teoria, i multiculturalisti pretendevano di prevenire. Lo provano i fenomeni di ri-tradizionalizzazione identitaria nelle seconde e terze generazioni di immigrati, che spesso aderiscono ai gruppi fondamentalisti e persino a quelli più violenti, come appare dalle biografie dei tanti giovani terroristi, detti foreign fighters, nati in Europa, che hanno commesso attentati in Europa o di qui sono partiti per fare la jihad in Siria nelle file dell’Isis.

Tutto ciò è avvenuto nel silenzio acquiescente di leader politici compiacenti e persino con l’attiva complicità di mass media, intellettuali europei e prelati cristiani di vario livello. Sono quegli intellettuali, quei politici e quei prelati europei ovviamente i veri responsabili per un fenomeno, che non può essere addossato a responsabilità degli immigrati mediorientali o africani. Questi ultimi sono figli delle loro tradizioni e della loro cultura e fanno e pensano quel che possono. Molti di essi vorrebbero integrarsi nella società dei diritti umani e delle libertà, ma si trovano tra l’incudine dei minacciosi gruppi fondamentalisti organizzati e il martello degli intellettuali occidentali “progressisti”, di fatto complici degli ultra-tradizionalisti. Sono le élite europee multiculturaliste che, odiando la propria cultura e la propria storia, e vergognandosene, incoraggiano e giustificano le tendenze anti-occidentali e identitarie presso le comunità allogene di immigrati, specie se concentrati in un’area ristretta.

Il fenomeno è particolarmente rilevante in Francia, Germania, Belgio, Olanda, Svezia e persino nella piccola Danimarca. L’Italia ne è molto meno toccata, perché gli immigrati si sono sparpagliati sul territorio nazionale e non hanno formato grandi enclave. Fanno eccezione alcuni quartieri delle grandi città del Nord, l’enclave dei cinesi in alcune aree della Toscana e della Lombardia e quella temibilissima della mafia nigeriana a Castel Volturno ed in altre zone. Tuttavia, la tendenza esiste e si va rafforzando anche in Italia, dove prospera tra gli intellettuali progressisti e tra i chierici del politicamente corretto la mentalità multiculturalista. Nello stesso tempo, essi si dicono “europeisti”. Pochi notano la contraddizione.

Essi, per esempio, negli ultimi tempi non parlano più di “integrazione” dell’immigrato alla cultura europea, ma di una “inclusione” non solo e non tanto dell’individuo immigrato, ma anche e soprattutto della sua “cultura”. Nessuno si chiede come possa una civiltà laica e liberale (oltre che cristiana) “includere” una cultura che non lo sia e che sia anzi anti-laica ed anti-liberale (oltre che anti-cristiana). Ciò – è bene dirlo chiaro – può avvenire solo al prezzo di una (auto) disintegrazione della civiltà europea. Ma è probabilmente questo l’obiettivo, non tanto recondito, dei cosiddetti progressisti o almeno di una buona parte di essi, come i multiculturalisti.

Ma se così è se ne deve dedurre allora che per essi l’Europa sarebbe una mera espressione geografica; e al massimo una mera area di libero scambio, in specie erogatrice di welfare per potenziali nuovi elettori. Non sarebbe più per essi anche la civiltà laica e liberale in cui integrare gli immigrati. Ci si può chiedere: dove è finita la loro retorica sulla civiltà democratica europea? E la retorica sull’integrazione? Tutta “fuffa” che maschera vecchi e mai sopiti sentimenti anti-europei ed anti-occidentali. Essi – altro esempio rilevante – spesso agitano poi lo slogan “più Europa”, ma nello stesso tempo avvallano l’ideologia del politicamento corretto che svaluta, disprezza e colpevolizza la civiltà europea come fonte del male radicale globale. Essa sarebbe – a sentir loro – “sistemicamenterazzista, colonialista e addirittura fascista “in pectore”, per cui progettano di creare una “nuova civiltà” che sarebbe caratterizzata da un inesistente e fantasmatico “nuovo Umanesimo più inclusivo” alternativo a quello liberale euro-occidentale (lo teorizzano in molti da Edgar Morin, fino a Papa Bergoglio). Nello stesso tempo, con i loro ideologismi iper-democratici le “no-go zone”, che altro non sono se non aree crescenti di non-Europa e di anti-Europa in Europa, producono meno Europa, non “più Europa”.

Questi europeisti di facciata sono da annoverare tra i nemici della civiltà euro-occidentale. Sono gli emblemi e i fautori della auto-disintegrazione dell’Europa: un ulteriore esempio di quello che Benedetto XVI definì “un patologico odio di sé dell’Occidente”.

Aggiornato il 31 marzo 2021 alle ore 09:36