Scuole chiuse: la generazione perduta

Il Covid è un assassino che semina morte. C’è una vittima illustre, per salvare la quale non basteranno le buone intenzioni dei politici: il sistema educativo. La scuola è più di una sovrastruttura dell’organizzazione sociale: è un universo esistenziale compresso che contiene, sviluppa e prepara alla vita generazioni di giovani. Il fatto che da un anno sia stata paralizzata dallo stop and go delle chiusure e delle (false) ripartenze ha generato un gap formativo che non potrà essere colmato in futuro. Non si tratta soltanto di un generalizzato abbassamento del quoziente di trasferimento delle conoscenze: per un ragazzo o una ragazza vivere la scuola è altro. E la risposta più adeguata al blocco delle attività scolastiche in presenza non è stata la didattica a distanza (Dad) che, semmai, ha generato più guasti e problematiche di quanto ne abbia risolto. A confermarlo sono i coprotagonisti dell’azione educativa: i genitori.

Uno studio condotto nel periodo di maggio-giugno 2020 dal Dipartimento di Scienze umane Riccardo Massa” dell’Università di Milano-Bicocca, ha dimostrato che “i due fattori che hanno compromesso maggiormente la partecipazione attiva dei figli (alla Dad, ndr) sono rappresentati dalla scarsa motivazione e dal disagio emotivo, scaturiti per lo più da una difficoltà nella comunicazione a distanza e nel seguire le lezioni senza il sostegno di un adulto.

L’interazione tra discente e insegnante, ma anche tra gli stessi ragazzi, non intermediata dalla tecnologia è un valore fondamentale nel percorso di maturazione caratteriale del minore. Il fatto che sia mancata ha prodotto nei giovani sentimenti di frustrazione, di solitudine e di rabbia che non sono stati metabolizzati. Da qui i comportamenti negativi registrati dai genitori: scarsa concentrazione, noia, cambi d’umore accompagnati da persistente malinconia e senso di solitudine. Ciò, evidentemente, non è attribuibile all’inefficienza del personale docente. Gli insegnanti, bisogna riconoscerlo, ce l’hanno messa tutta per tamponare la falla in un sistema che, già prima dell’abbattersi della pandemia, faceva acqua. Invalsi-Open (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione) li ha intervistati a campione per fare un bilancio dell’anno scolastico 2019-2020. Loro non hanno nascosto le difficoltà: “La sfida più grande è stata affrontare il cambiamento nella relazione con gli studenti e tra gli studenti”.

Anche adeguarsi in fretta alle novità recate dall’utilizzo operativo degli strumenti digitali non è stata una passeggiata, ma l’hanno fatto. Una docente intervistata ha risposto: “È stato come un corso super-accelerato”. Cosa chiedere di più nelle condizioni date? Lo studio dell’Università di Milano-Bicocca ha evidenziato che “gli studenti della scuola superiore hanno ricevuto più ore di Dad a settimana rispetto ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado e ai bambini della scuola primaria”. In dettaglio: mediamente nella scuola secondaria di secondo grado sono state erogate circa 18 ore settimanali di Dad; 15 ore nella secondaria di primo grado; 7,5 ore nella scuola primaria. Ma la ricerca rileva che circa la metà dei genitori dei bambini della scuola primaria intervistati (47 per cento) ha dichiarato che il proprio figlio ha avuto da 1 a 5 ore di attività didattica a settimana mentre il 4,1 per cento ha dichiarato invece che i figli non hanno ricevuto alcuna proposta di Dad.

C’è stato un problema legato al digital divide che ha aumentato il fattore discriminante delle diseguaglianze socio-economiche presenti nella platea scolastica, nodo irrisolto del sistema educativo. Non tutti i ragazzi hanno avuto la possibilità di operare, a casa propria, in ambienti favorevoli alla didattica a distanza. Scarsa disponibilità di validi supporti tecnologici, carenze nella connessione alla rete, mancanza di sostegni familiari per compensare le difficoltà nell’apprendimento. Un’indagine tra i docenti del luglio 2020, realizzata dall’Indire (Istituto nazionale documentazione innovazione ricerca rducativa), ha rilevato che le pratiche didattiche utilizzate durante il lockdown hanno riguardato principalmente le lezioni in videoconferenza e l’assegnazione di risorse per lo studio ed esercizi; in quota minore, attività di ricerca e laboratori on-line.

Nei limiti del possibile si è tentata anche l’attività di contatto e di socializzazione. Ma per quanto si sperimentino vie sostitutive alla comunicazione interpersonale, nulla può appagare il bisogno di gestualità, contatto fisico e visivo con i ragazzi e tra i ragazzi. Tra non molto toccherà scoprire che l’interruzione della didattica in presenza avrà fatto esplodere un fenomeno endemico tra le fasce più disagiate della società, in particolare nelle periferie degradate delle grandi città del Mezzogiorno: la dispersione scolastica. Sarà una dolorosa conta che si dovrà fare quando saremo tornati alla normalità. Non saranno pochi i banchi lasciati vuoti dai minori che, deviati dall’ambiente in cui vivono (meglio sarebbe dire sopravvivono), preferiranno intraprendere altri percorsi di vita ritendendo inutile proseguire quello scolastico. Prepariamoci a vedere lievitare il dato, già allarmante prima del Covid, dei sottoccupati e degli inattivi: il popolo dei Neet (Neither in employment or in education or training), quelli che non studiano e non lavorano. Di loro chi si farà carico? Il solito welfare familiare che sopperisce all’impossibilità dello Stato di allargare a dismisura la spesa sociale?

Non dimentichiamo che, anche con la pandemia, c’è un settore “produttivo” in crescita costante che ha intensificato la domanda di manodopera a basso costo: la criminalità organizzata. Il dramma della scuola chiusa pesa sull’oggi ma è soprattutto un problema per il domani. La didattica a distanza non è in grado di fornire il necessario orientamento per indirizzare al meglio i giovani su percorsi formativi aderenti alle proprie aspettative occupazionali e professionali. Lo dicono i genitori intervistati: la valutazione sulla Dad è negativa perché la didattica a distanza non è scuola (Fonte: Invalsi-Open). Tuttavia, è fin troppo facile appellarsi all’intervento dello Stato per riavviare subito l’attività scolastica in presenza. Bisogna fare i conti con la realtà.

Il matematico Giovanni Sebastiani, primo ricercatore dell’Istituto per le applicazioni del calcolo “Mauro Picone” del Cnr, ospite di “L’Italia s’è desta” su Radio Cusano Campus, ha detto: “È stato un grosso errore riaprire le scuole sia a ottobre sia adesso. Aumentano gli studi che mostrano il nesso causale tra l’attività didattica in presenza e l’aumento della diffusione del virus. L’indice Rt diminuisce del 35 per cento quando si passa dalla didattica in presenza a quella a distanza. Le misure restrittive del periodo natalizio ci hanno permesso di passare dal 13 per cento dei positivi all’8 per cento, lasciando chiuse le scuole saremmo arrivati al 3 per cento”.

E così che funziona: se tornano le zone rosse si chiude tutto, scuole comprese. Occorrerebbe una diversa politica, più coraggiosa e lungimirante nel cercare soluzioni alternative per salvaguardare la tenuta dei presìdi educativi. Ma di questa politica, Mario Draghi o non Mario Draghi, non v’è traccia. Se, come probabilmente accadrà, si dovesse tornare alla chiusura prolungata sulla gran parte del territorio nazionale, il ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe considerare seriamente la possibilità di organizzare sportelli telematici di consulenza da affidare a esperti in Bilancio di competenze, per aiutare gli studenti prossimi al termine del percorso scolastico a redigere il portfolio individuale di conoscenze-competenze-abilità acquisite e a orientarsi al mondo del lavoro o sulle scelte curriculari per l’accesso agli studi universitari. Abbiamo, nostro malgrado, rovinato il presente a una generazione di giovani. Almeno non distruggiamogli il futuro.

Aggiornato il 05 marzo 2021 alle ore 10:02