L’imboscata, le correnti e le dimissioni

venerdì 5 marzo 2021


L’annuncio delle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Partito Democratico è arrivato inaspettato. Che l’aria fosse tesa era sotto gli occhi di tutti, ma alle dimissioni pensavano in pochi, almeno al di fuori della ristretta cerchia dei collaboratori e di quella, più ampia, dei cospiratori.

La sensazione è che dietro questa scelta si nasconda qualcosa di inconfessabile all’elettorato di sinistra, almeno per ora. Le motivazioni consegnate a Facebook, infatti, non sono in grado di reggerne la radicalità, di giustificarla fino in fondo. Si può seriamente credere che il segretario non sapesse che il partito era ed è un covo di vipere? È credibile che non sapesse che le correnti si nutrono di posti di governo o almeno di sotto governo? O che non conoscesse l’esistenza del manuale Cencelli, ideato per evitare, proprio, i parricidi e i fratricidi fra correntisti?

Zingaretti è uomo navigato, conosce bene la composizione del suo partito, è consapevole delle dinamiche della politica e delle sue asperità. È perciò improbabile che si sia lasciato scoraggiare, fino al punto da gettare la spugna, da qualche bizza correntizia o critica fuori dal coro. È possibile, piuttosto, che il suo annuncio risponda ad un’altra finalità: giocare d’anticipo così da sventare l’agguato che avrebbe potuto subire all’assemblea nazionale del partito convocata per il 13 marzo.

È indubbio, infatti, che il legame a fil doppio da lui stretto col Movimento 5 Stelle e la scarsezza di autonomia della sua linea politica, abbiano riacceso le polveri di chi da tempo voleva assaltare la diligenza, non solo o non tanto la “segreteria Zingaretti”, quanto la “ditta”, il partito stesso. Gli errori di Zingaretti hanno rafforzato questo disegno e rinfocolato alleanze tra correnti interne e tra queste e schieramenti esterni al partito.

Il tentativo che si rincorre da almeno due anni e che fa da quinta teatrale alla politica degli ultimi mesi è quello di trascinare una parte dei democratici sulla strada di Renew Europe, il nuovo centro politico europeo legato a “La République en marche”, di Emmanuel Macron, al Partito dell’alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (Alde) e al Partito Democratico europeo (Pde).

L’idea, lungamente accarezzata da Matteo Renzi e poi da Italia Viva, piace a larghe frange di Forza Italia, Azione, Cambiamo, Verdi, +Europa, Cristiani democratici e, appunto, ai filo-renziani del Partito Democratico. Partecipare ad un polo centrale d’ispirazione liberale o liberal-democratico di diretta derivazione europea, con a capo, magari, Mario Draghi, come qualcuno sta già immaginando, potrebbe essere il vero disegno che Zingaretti ha tentato di sventare.

In parole semplici, mentre lui vuole rifondare il Pd annettendolo di fatto al Movimento 5 Stelle, i suoi avversari avrebbero in mente di concorrere all’allargamento di un partito europeo vero e proprio, al quale però dare radici nazionali con costole dei partiti tradizionali. Per chi vuole perseguire questo progetto, quindi, svuotare il Partito Democratico o riconquistarne la segreteria è tappa essenziale per iniziare il cammino di avvicinamento a Renew Europe o comunque un cammino di radicale rinnovamento dello scenario politico italiano.

Fantapolitica? Piuttosto una partita a poker, da tavolo verde. Zingaretti non voleva stare a questo tavolo o ha capito che lo avrebbero brutalmente escluso, e così ha pensato di provare a rovesciarlo anticipatamente. La partita è appena iniziata.

(*) agiovannini.it


di Alessandro Giovannini