Blocco navale: una colata di demagogia

Non solo Covid. La politica nostrana è afflitta da un male mortale: la faziosità. Si tratta di un morbo subdolo che non sempre si mostra alla luce del sole ma che avvelena il dibattito politico con effetti solitamente devastanti, talvolta grotteschi. Un esempio? La discussione in corso presso la Terza Commissione Affari esteri e comunitari della Camera dei deputati chiamata a esprimersi sulla “Ratifica ed esecuzione degli emendamenti allo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della legge 12 luglio 1999, numero 232, adottati a Kampala il 10 e l’11 giugno 2010. Ieri l’altro è scoppiato un putiferio all’approvazione, per mano della rive gauche governativa (Movimento Cinque Stelle, Partito Democratico, Liberi e Uguali) di un comma dell’emendamento all’articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale che ridefinisce la fattispecie giuridica di crimine di aggressione.

Non è un’iniziativa italiana. Il Parlamento è chiamato a ratificare una modifica decisa dalla Comunità internazionale 11 anni orsono a Kampala in Uganda (mai location fu più appropriata per parlare di crimini contro l’umanità). Non che nel frattempo vi sia stata una gara tra le nazioni a rendere esecutiva la modifica che è entrata in vigore il 26 settembre 2012. Ad oggi, a esprimersi favorevolmente sono stati 38 Paesi membri della Corte penale internazionale (Cpi). Va detto però che nell’elenco dei 38 Paesi aderenti non compare alcuna grande potenza globale né alcuno tra i Paesi strategicamente più attrezzati. Ma tant’è. La stesura del nuovo articolo 8-bis, al comma 1, definisce crimine di aggressione la “pianificazione, preparazione o esecuzione di un atto di aggressione di uno Stato ad un altro, che per le sue proporzioni e gravità costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite”. Fin qui, nulla quaestio.

Il detonatore che ha innescato la polemica politica è nel comma 2 del testo emendato. Raccogliendo le indicazioni contenute nella risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu numero 3314 del 14 dicembre 1974, la nuova formulazione individua alcuni comportamenti che integrano la definizione di crimine di aggressione. Tra questi compare il blocco navale dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato. Non è parso vero all’indomito spirito fazioso della politica italiana di rialzare la cresta. La fu gioiosa macchina da guerra della sinistra, arricchita dall’apporto dei pentastellati in fuga dal pensiero razionale, si è tuffata a capofitto come fanciullo goloso in un bignè nel connettere il disposto normativo alla criminalizzazione di azioni di governo volte a impedire con la forza l’ingresso di migranti illegali nel Paese.

Il centrodestra si è spaccato: la Lega, per quieto vivere verso i nuovi compagni di strada nel Governo di Mario Draghi, si è astenuta. Forza Italia non si è presentata al voto in Commissione, mentre Fratelli d’Italia ha fatto un gran baccano sostenendo, con Andrea Delmastro delle Vedove capogruppo del partito di Giorgia Meloni in commissione Esteri, che “chi difende in ogni modo i confini è un patriota, non un criminale internazionale”. Ma, come avrebbe detto il mitico Antonio Di Pietro, che c’azzecca l’articolo 8-bis con la questione dei migranti? Nulla, se non per fare “ammuina” tenendo alto il livello del testosterone nel confronto politico.

La norma parla chiaro: è aggressione l’immotivato blocco delle coste e dei porti altrui. Ne consegue che non sia un crimine difendere i propri confini. La verità è che ci costringono a discutere di un falso problema. Il perché non si possa ricorrere al blocco navale per fermare il flusso migratorio illegale lo spiega magistralmente Ferdinando Fedi nell’articolo pubblicato ieri sul nostro giornale dal titolo: “Blocco navale, abusare di un termine”. Tuttavia, la criminalizzazione di ogni azione di contrasto all’immigrazione irregolare è un capolavoro di mistificazione. Arte nella quale la sinistra è maestra. Ci vuole stomaco e faccia tosta a turlupinare in modo tanto sfacciato l’opinione pubblica. E l’idea che un governante debba essere condotto in catene davanti al Tribunale penale internazionale a rispondere dell’accusa di crimini contro l’umanità per aver ordinato alle navi della Marina militare di impedire l’ingresso di imbarcazioni che trasportano immigrati illegali all’interno delle acque territoriali, è vomitevole.

D’altro canto, perché stupirsi? I “compagni” del variopinto sol dell’avvenire hanno avuto il barbaro coraggio di mandare a processo Matteo Salvini con l’accusa di sequestro di persona per aver ritardato, da ministro dell’Interno del Conte I, un’autorizzazione di sbarco a un gruppo di immigrati, figurarsi se possano farsi scrupolo di denunciare alla Corte penale internazionale, magari con il controcanto di qualche zelante Procuratore della Repubblica organico alla causa multiculturalista, chiunque osi mettere il bastone tra le ruote alla loro sciagurata politica delle porte aperte alle migrazioni dal mondo.

Il problema dello stop al fenomeno degli sbarchi incontrollati c’è e non può essere risolto agitando lo spauracchio del blocco navale. Altri devono essere gli strumenti d’intervento. A cominciare col dare un taglio all’ipocrisia di una geopolitica praticata dalle cancellerie europee a corrente alterna. Se si tratta di intrallazzare con il Governo di Tripoli, o con il suo nemico interno insediato in Cirenaica, la Libia è il posto migliore al mondo dove stare e dove fare affari. Se, invece, ci si azzarda a dire che la soluzione più ovvia per non fare arrivare in Italia i migranti intercettati nelle acque del Canale di Sicilia sarebbe di riportarli indietro nel luogo da cui sono partiti, apriti cielo. Si scopre che la Libia è l’inferno in terra. Ma ci chiediamo: lo era anche quando l’Unione europea, nel 2019, ha stanziato 65 milioni di euro nell’ambito del Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa (Eutf) per programmi volti a “migliorare le condizioni di vita e la resilienza dei cittadini libici nonché promuovere le opportunità economiche, la migrazione e la mobilità dei lavoratori nei paesi dell'Africa settentrionale”? E anche la Tunisia è un inferno, visto che s’imbarcano anche da lì per venire in Italia? E lo è il Marocco, a stare ai numeri degli immigrati irregolari presenti in Italia che provengono da quella terra?

Giorno verrà in cui una politica impegnata a fare gli interessi della nazione e non quelli di parte stabilirà che la giusta combinazione tra sicurezza e protezione umanitaria starà nel creare, sulle sponde nordafricane, gli osannati hub da destinare al soccorso e all’assistenza degli uomini e delle donne desiderosi di mettere piede in Europa, e alla valutazione della fondatezza o meno delle richieste di asilo. Strutture allestite e pagate dall’Unione europea, gestite dalle organizzazioni umanitarie e vigilate da contingenti di forze armate dei Paesi Ue sulla base di stringenti accordi con i governi locali. Nessuno è tanto pazzo da pensare di impedire a suon di cannonate gli approdi in Italia ai clandestini. Tuttavia, nessuno dotato di buonsenso può restarsene a braccia conserte di fronte a un’invasione migratoria. Una via d’uscita va trovata. E se non sarà il Governo Draghi a farlo, toccherà al prossimo Esecutivo. Perché prima o poi si voterà e gli italiani potranno riprendersi ciò che gli appartiene: l’Italia.

Aggiornato il 05 marzo 2021 alle ore 09:44