La nemesi contro il partito dei pm e la giustizia-spettacolo

Alla fine, se un governo non si occupa in maniera seria della giustizia, sarà la “giustizia” a occuparsi di lui. È la nemesi. La terribile dea greca della vendetta che, in realtà, è una trasposizione occidentalizzata della orientale legge del Karma. Ne sa qualcosa il ministro Alfonso Bonafede: ogni qual volta qualcuno gli ha chiesto conto delle mancanze del suo ministero – in primis sulla situazione quasi tragica delle carceri per segnalare la quale, da qualche giorno, è ricominciato il digiuno di dialogo di Rita Bernardini del Partito Radicale – si è limitato ad affermare che è “tutto sotto controllo”. Davvero? Compresa l’epidemia di Covid alla fine divampata in tutti e 192 gli istituti penitenziari italiani, con buona pace di chi come Marco Travaglio si ostina a scrivere contro ogni evidenza che in quei posti si sarebbe più al sicuro che altrove, per il solo fatto di essere isolati dal resto del mondo?

La realtà si è presa la responsabilità di smentire le prese di posizioni ideologiche dei manettari. Che hanno fallito su tutto. Tanto che adesso Bonafede viene indicato come il più sacrificabile persino da parte dei grillini sull’altare di un agognato esecutivo Conte ter. Fin qui la “nemesi”. Poi c’è lo “Stato di diritto” che i quasi tre anni di governi con i Cinque Stelle in posizione dominante – e con lo stesso su citato ministro a un posto che non faceva per lui, conquistato solo perché essendo stato allievo e assistente universitario di “Giuseppi” Conte e avendolo per questo presentato a Beppe Grillo e a Luigi Di Maio come possibile premier aveva in cambio ricevuto la importante carica – hanno ridotto in poltiglia. Ebbene, anche lo Stato di diritto improvvisamente viene rivalutato e quasi “vendicato” grazie sempre all’intervento della dea Nemesi, che come in una tragedia greca viene fuori dal coro di lagnanze da parte di altri magistrati contro lo strapotere mediatico di alcuni pm, che ancora si illudono che l’Italia voglia farsi rivoltare come un calzino o smontare come un Lego.

Il “malcapitato” che adesso si trova, all’improvviso, ad affrontare questo cambio di vento è il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Criticato ferocemente non più solo dagli ex imputati, poi assolti, di alcune sue inchieste o dalla “corporazione” degli avvocati – sempre sospettata di nefandezze nell’immaginario malato del meraviglioso mondo a Cinque Stelle – ma addirittura dalla corrente di Magistratura democratica, che nel proprio sito internet praticamente sollecita un intervento da parte del Csm (Consiglio superiore della magistratura) a tutela di quei magistrati calabresi e non che potrebbero essersi sentiti accusati di chissà quali connivenze con la criminalità organizzata. Il contrasto contro la quale lo stesso Gratteri ha apparentemente assunto come “missione per conto di Dio”. “Non crediamo che la comunicazione dei procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso – si legge nel comunicato durissimo emanato dall’esecutivo di Md (Magistartura democratica) in un articolo pubblicato sul sito della corrente in questione – con un tale agire, il Pubblico ministero dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali, a partire dal principio di non colpevolezza, e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”.

Parole che avrebbero potuto sottoscrivere politici che hanno fatto del garantismo la loro battaglia più importante come Marco Pannella o Enzo Tortora. E anche questa è una nemesi, stavolta per Magistratura democratica, che negli anni del proprio furore politico si presentava al pubblico come l’ispiratrice del “sostanzialismo” nella giustizia. Un sostanzialismo che però ha finito per degenerare con la Weltanschauung secondo cui “il fine giustifica i mezzi”. Infatti, quando il pubblico ministero si sostituisce alle forze dell’ordine, invece di coordinarle e controllarne la legalità dell’agire nella ricerca delle prove, e “lotta insieme a loro” ecco che la giustizia piano piano – e neanche tanto piano – diventa la divoratrice del diritto.

Manca la nemesi di tutte le nemesi? No, non manca. Un Governo che ha approfittato della pandemia per tenersi a galla con qualunque mezzo possibile, conculcando la libertà dei cittadini con quella stessa cultura del sospetto già ampiamente collaudata da tutti quei pm d’assalto – e non è giusto gettare la croce solo su Gratteri che in fondo è l’ultimo arrivato – che sono stati per decenni idolatrati dalla sinistra di forca e di Governo e che poi sono diventati i totem intoccabili della variante impazzita rappresentata dal grillismo, eccolo cadere proprio su quel terreno che si credeva amico. La classica partita persa “in casa”. E la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed impazzire le reazioni di chi oggi vede crollare la propria pseudo-ideologia improvvisata e basata tutto sommato sull’antico motto borbonico di “feste , farina e forca” (quest’ultima delegata a fare la parte del leone) l’ha versata il deputato Enrico Costa di Azione chiedendo in un più che opportuno emendamento che l’Italia recepisca una direttiva europea, che vaga per il Parlamento italiano dal lontano 2016 e che impone ai pm che fanno inchieste un contegno più riservato, e meno esibizionista, nel presentare i propri arresti all’universo mondo. Basta, quindi, con la giustizia-spettacolo che sembra fatta apposta per trasformare i pm d’assalto nei futuri detentori di diritti d’autore per libri e serie televisive. Basta con conferenze stampa in cui l’imputato viene condannato in televisione, prima che in aula e con la difesa ridotta a convitato di pietra.

Un affronto incredibile per quei magistrati dell’accusa finora intoccabili e che hanno scelto questa strada para mediatica (e a volte “paracula”) come scorciatoia per l’avanzamento in carriera, a prescindere dai risultati processuali delle proprie inchieste. Arrivando magari a ingenerare il sospetto che le assoluzioni siano dovute alla presunta corruzione, o collusione, con le mafie dei loro colleghi giudicanti. Questi ultimi quasi mai difesi con le famose “azioni a tutela” da parte del Consiglio superiore della magistratura. Anni fa c’è stato che credeva di potere risolvere questo corto circuito mediatico giudiziario vietando per legge che venissero fatti i nomi dei pubblici ministeri che conducevano le indagini. Oggi ci si accontenterebbe di vietare loro di dare nomi accattivanti e ammiccanti alle indagini. E di comportarsi come le “influencer” su Instagram.

Aggiornato il 26 gennaio 2021 alle ore 13:30