Al Senato la politica-spettacolo diventa spettacolo della politica, che non c’è più

Lo stupore, a volte divertito e pure allibito nella votazione in Senato (finita con la vittoria dimezzata di Giuseppe Conte che non ha più la maggioranza assoluta), è frutto della trasmissione in diretta televisiva della riunione per il voto di fiducia. Mai come in questo caso la “politica-spettacolo” ha mostrato tutto il suo significato, rispettando lo schema di una puntata del “Grande Fratello” o dei “Simpson” con l’Aula del Senato come palcoscenico, come un set su cui gli interpreti hanno dato il meglio, ma soprattutto il peggio di se stessi. Dunque, non la politica spettacolo ma lo spettacolo di questa politica, di cui la tv ha restituito impietosamente il ritratto. Uno spettacolo a suo modo divertente e pure esilarante – a parte l’ufficialità degli interventi pro domo sua – con un secondo tempo della lunga e confusa votazione nominale, con i tempi supplementari caratteristici di una partita di calcio, in cui il risultato è stabilito dalla moviola (senatoriale) per giudicare la validità, o meno, di due giocatori-votanti.

La potenza della televisione è sempre a doppio taglio e se da un canto è lo strumento preferito dai politici per piacere agli elettori, dall’altro può tramutarsi nello specchio impietoso di loro stessi proprio, in quanto rappresentanti della volontà popolare. Nel nostro caso, l’immagine offerta degli attori politici è risultata tanto più devastante quanto più veristicamente realizzata in quella definita la sede solenne delle decisioni, ridotta ad un suk nei cui retroscena si svolgevano pratiche contrattuali a base di trattative sfacciate e disperate, di promesse e di garanzie.

La solennità dell’Aula è stata declassata a “mercato della vacche”, come si diceva ai bei tempi, nel dipanarsi di una soap opera con protagonisti, di volta in volta, mutevoli a seconda degli schieramenti e che la tv restituiva in primi piani di attori, ora preoccupati ora comizianti, sullo sfondo di un coro spesso disordinato come le tifoserie. E con un arbitro dal fischietto quasi muto e in un certo senso implorante più disciplina da parte dei giocatori. Chi non ha cambiato canale e ha seguito la partita fino alla proclamazione del risultato, oltre che nella suspense dell’attesa, si godeva il volto di una politica alla cui scomparsa la radicale modifica delle scelte, transitando da uno schieramento all’altro, era ed è la conferma del suo progressivo scivolamento in una terra di nessuno, dove proprio quei cambi di opinione diventano la testimonianza de visu e de facto della sua irreversibile collocazione: nel trasformismo e nell’opportunismo. Il leitmotiv nelle parole di un Conte autoproclamatosi avvocato del popolo, per il voltare pagina e per il cambio di passo, era il preludio di una lunga maratona che, grazie alla diretta tv, ha consegnato il vero significato di quell’invito: a cambiare casacca.

Aggiornato il 21 gennaio 2021 alle ore 09:32