Pensare la pandemia

mercoledì 18 novembre 2020


Anche se, come annotava Paul Valéry, la regola è il non pensiero, mentre il pensiero è l’eccezione, sforziamoci di esercitare il mestiere del pensiero: è più impegnativo, ma conviene. Pensando, debbono necessariamente porsi in chiaro alcuni aspetti.

(1) È una scempiaggine affermare di credere o di non credere al virus della pandemia, come si trattasse della Assunzione della Vergine. Il virus, come tutte le cose di questo mondo, è oggetto di sapere e non certo di credenze. Infatti, chi sa non ha bisogno di credere.

(2) Che il virus ci sia, sia operante, sia molto diffuso, sia ancora oltremodo diffusivo, lo sappiamo con sufficiente certezza: ne abbiamo prove oggettive, vale a dire documentali, personali, conoscitive, in abbondanza.

(3) Le informazioni che sulla pandemia vengono giornalmente elargite dai mezzi di comunicazione sono lacunose, contraddittorie, insufficienti, e quasi sempre oltremodo allarmistiche.

(4) Esemplificando, si comunica il numero dei morti del giorno, ma si tace che il giorno prima il numero era superiore; oppure – modalità abituale – si grida che la curva dei contagi sale a dismisura, mentre a salire è solo la curva dei contagi rilevati in base ai tamponi effettuati: si tace invece – il più delle volte – il solo dato che davvero conti per comprendere l’andamento della epidemia, cioè la percentuale di contagi rilevati rispetto al numero dei tamponi effettuati.

(5) Giornali e televisioni – senza eccezioni – si consegnano supinamente al Verbo che dovrà essere pronunciato dagli scienziati di turno, non nel nome della vera scienza (la quale, come è noto, non vive di certezze, ma di supposizioni), ma del più sfrenato, miope, paralizzante “scientismo”, che, della vera scienza, è soltanto la grottesca controfigura.

(6) Infatti, i virologi fra di loro si contraddicono, litigano, si smentiscono pubblicamente, proprio perché sono indotti a dire cose che non dovrebbero, perché non le sanno e a tacere quelle che invece dovrebbero dire, cioè i soli dati oggettivi a loro conoscenza.

(7) L’esito scontato è la più assoluta disinformazione e comunque il terrore psicologicamente indotto in tutti e in ciascuno, tranne in quelli che riescano a pensare: e purtroppo, non sono molti.

(8) Il capo del Governo, Giuseppe Conte, dal canto suo, sforna decreti amministrativi con inestinguibile continuità, annunciando che di ciascuno gli effetti saranno visibili dopo due settimane. Tuttavia, egli smentisce se stesso, dal momento che il decreto successivo viene emanato appena sei o sette giorni dopo il precedente, senza cioè aver atteso le preannunciate due settimane. Ciò significa o che era errato il primo, oppure che lo è il successivo, oppure – cosa assai più probabile – che lo sono entrambi.

(9) Il fondamento giuridico di tali decreti è assai dubbio, per non dire inconsistente, dal momento che la libertà personale, di movimento e di circolazione è un bene sommo e come tale tutelato dalla Costituzione, nel senso che essa non può in alcun modo essere compressa o eliminata (con il cosiddetto “coprifuoco”) se non su espressa disposizione dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge.

(10) I decreti di Conte sono perciò ampiamente illegittimi e non si capisce perché egli, invece di ricorrere a semplici provvedimenti amministrativi, non abbia fatto ricorso alla decretazione d’urgenza come previsto dalla stessa Costituzione. O meglio, si capisce: Conte ha voluto evitare il Consiglio dei ministri, sede naturale della decretazione urgente, e soprattutto la necessità di presentare poi il decreto varato al Parlamento che dovrebbe convertirlo in legge nei sessanta giorni successivi. Insomma, attraverso i decreti amministrativi – eletti illegittimamente a fonte primaria di normazione perfino in tema di libertà personale – Conte si è sbarazzato ad un tempo sia della sua maggioranza che della opposizione, poiché la prima siede nel Consiglio dei ministri, la seconda in Parlamento.

(11) Il presidente del Consiglio si trasforma in tal modo, nel nome della emergenza, in un autentico autocrate, perfettamente consapevole di esserlo.

(12) La emergenza ormai non è più tale, dal momento che dura da quasi un anno e si teme possa durare ben di più: è uno stato da considerare pressoché normale e non può più essere affrontata in chiave di eccezionalità. Una emergenza duratura e quasi abituale non è una emergenza e perciò nulla di ciò che si fa e si disfa in suo nome può esser più considerato legittimo.

(13) L’autocrazia si alimenta tradizionalmente attraverso due canali entrambi delegati alla informazione pubblica: l’uno è la disinformazione; l’altro è il terrorismo psicologico. Entrambi sono da mesi perfettamente messi in opera dai nostri di mezzi di informazione che snocciolano cifre su cifre in una sarabanda multicolore di dati che, nella confusione generale, si prestano soltanto ad esser letti nella chiave necessaria di una crescente angoscia collettiva. Più cresce l’angoscia, più l’autocrate si libera da ogni controllo e ostacolo.

(14) Chi, esercitando il pensiero, voglia vedere le cose in altro modo rispetto a quello abitualmente inquinato dall’angoscia, viene tendenzialmente bollato come “negazionista” e come tale consegnato alla esecrazione sociale: gli si toglie perfino il diritto di parola, ben prima del diritto di dissentire.

(15) Non a caso questo epiteto richiama alla mente in modo diretto il negazionismo della Shoah. Ne viene che chi voglia pensare diversamente la pandemia viene lessicalmente e psicologicamente equiparato ad un “simpatizzante neonazista” che voglia negare l’eccidio degli ebrei nei campi di sterminio: viene perciò ridotto al silenzio e indicato al pubblico ludibrio.

(16) Le masse popolari vengono così incitate, per un verso, alla esecrazione verso chi osi pensare in modo differente e, per altro verso, a chiedere esse medesime una crescente e sempre più marcata limitazione delle libertà individuali.

(17) Secondo la celebre lezione di Ètienne De La Boétie, è il popolo, a volte, che cerca da se stesso la propria servitù: forse per paura della libertà?

(18) Non basta. Il capo del Governo – in linea con i tipici comportamenti di un autocrate – tiene “segreto” l’algoritmo in forza del quale vengono di volta in volta combinati i celebri ventuno elementi dai quali dipendono i destini delle regioni italiane: rosse, arancioni o gialle. Qui siamo davvero oltre ogni limite, in spregio assoluto al principio di trasparenza che presiede ad ogni Stato di diritto e ad ogni forma democratica di coesistenza. Questa segretezza, della quale Conte non si vergogna minimamente, fra l’altro, determina le polemiche fra Stato e Regioni, i cui presidenti non sanno letteralmente nulla di ciò che fa il Governo, al punto che alcuni di essi hanno confessato di sentirsi davanti non ad un ragionato decidere, bensì alla “ruota della fortuna”.

(19) La segretezza sui criteri che guidano le scelte del Governo, la disinformazione, l’allarmismo diffuso e pervasivo, l’angoscia che attanaglia i più, la decretazione amministrativa che limita le libertà individuali, lo sfregio verso le garanzie costituzionali, la preoccupazione di essere annoverati fra i negazionisti, tutto contribuisce a disegnare i contorni di una sorta di paradossale “dispotismo condiviso”: il dispotismo messo in atto dal Governo, la condivisione dalla maggioranza dei non pensanti o, se si vuole, dei difficilmente pensanti.  Si può ben dire che per paura di morire, molti preferiscono suicidarsi.

(20) Fino a quando? Intanto il virus pascola indisturbato.


di Vincenzo Vitale