martedì 10 novembre 2020
Chi non sa perdere non è liberale
Fu detto, ed è vero, che negli Stati Uniti il Partito Democratico e il Partito Repubblicano sono due bottiglie vuote con differente etichetta che vengono riempite volta a volta a ridosso delle elezioni. Ovviamente, non è vero del tutto e non è vero sempre; ma sostanzialmente, sì. Infatti, da ciò deriva la secolare stabilità del bipartitismo americano, dove, detratti gli estremismi, un democratico di destra può essere più a destra di un repubblicano di sinistra e viceversa, per usare le distinzioni tradizionali.
Per quello che importa qui da noi, bisogna notare che i repubblicani non sono uguali come i gatti di notte. Bisogna distinguere. Di massima sono tre le categorie definibili: il conservatore, il reazionario, il liberale classico. Per individuarli bisogna stare ai fatti e fare attenzione, perché non tutto il Partito Repubblicano è assimilabile ad una destra liberale. Il presidente Donald Trump (uscente?) sta dimostrando che non vi appartiene. Diranno i giudici che ha adito se la vittoria di Joe Biden è truccata oppure no. Tutte le evidenze dicono che è stata regolare. Né lo sconfitto ha addotto le prove che sarebbe nel suo vitale interesse produrre. Un liberale resta tale nella vittoria e ancor più nella sconfitta. L’esempio degli esempi è Winston Churchill che, trionfatore in guerra contro Adolf Hitler, in pace perse nelle urne subito dopo, lasciò il Governo ed esaltò il diritto degli inglesi di deporlo. Quanto a Trump, abbiamo una cartina di tornasole insospettabile. Un altro repubblicano sconfitto nella corsa alla presidenza, John McCain, riconobbe la vittoria di Barack Obama con nobili parole intrise di spirito liberale, con la “e” finale.
Ecco il suo “il discorso di concessione”.
“Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato, e ha parlato chiaramente. Poco fa ho avuto l’onore di telefonare al senatore Barack Obama per congratularmi con lui. Per congratularmi con lui di essere stato eletto come nuovo presidente della nazione che entrambi amiamo. In una competizione così lunga e così difficile come è stata questa campagna, il suo successo – da solo – esige il mio rispetto per la sua abilità e perseveranza. Ma il fatto che ci sia riuscito dando ispirazione alla speranza di così tanti milioni di americani, che credevano erroneamente di essere così poco in gioco o di avere una influenza minima sull’elezione di un presidente americano, è qualcosa che io ammiro profondamente e la cui riuscita merita il mio encomio. Questa è una elezione storica, e io riconosco lo speciale significato che ha per i neri e lo speciale orgoglio che deve essere il loro questa notte. Ho sempre pensato che l’America offra un’opportunità a chiunque abbia l’industriosità per afferrarla. Il senatore Obama crede lo stesso. Ma entrambi riconosciamo, a dispetto del lungo tratto percorso dalle vecchie ingiustizie che un tempo macchiavano la reputazione della nostra nazione e che negavano ad alcuni americani la completa benedizione della cittadinanza americana, che la memoria di ciò ha ancora il potere di ferire. Il senatore Obama e io abbiamo le nostre differenze e le abbiamo dibattute; e lui ha prevalso. Non c’è dubbio che queste differenze rimangano. Questi sono momenti difficili per il nostro Paese. E io questa notte prometto a lui di fare tutto ciò che è in mio potere per aiutarlo a guidarci attraverso le molte sfide che andremo a incontrare. Raccomando a tutti gli americani che mi hanno sostenuto non solo di unirsi a me nel congratularsi con lui, ma di offrire al nostro prossimo presidente la nostra buona volontà e i più onesti sforzi per scoprire le strade che ci aiutino a trovare i necessari compromessi per stabilire dei contatti fra le nostre differenze, così da aiutarci a ripristinare la nostra prosperità, difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso, e lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti un paese migliore di quello che abbiamo ereditato. Auguro le migliori cose all’uomo che era il mio avversario e che sarà il mio presidente”.
di Pietro Di Muccio de Quattro