La defenestrazione di Davigo

Come era prevedibile, Piercamillo Davigo è stato defenestrato dal Consiglio Superiore della Magistratura di cui faceva parte. E dico defenestrato per alludere, in chiave storica, alla celebre defenestrazione di Praga, quando cioè nel 1618, aristocratici riformati (dai nomi impronunciabili) gettarono letteralmente dalla finestra del castello di Praga i messi imperiali cattolici. E ne nacque la Guerra dei trent’anni che appunto, per tre decenni, insanguinò l’intera Europa. Non penso che una cosa simile si potrà ripetere nell’immediato futuro, ma certo una guerra fatta di ricorsi – di Davigo – e di controricorsi – del Csm – è e rimane prevedibile.

Insomma, una lunga e defatigante controversia attende le cronache dei prossimi mesi e forse anni, ma senza che ve ne sia una ragione plausibile, perché, al contrario di quanto accade in ogni controversia che si rispetti – dove una parte ha ragione e un’altra ha torto – qui invece hanno torto entrambi, sia il Csm che Davigo. Spiego subito perché.

Il Csm ha torto perché dopo tutto ciò che è accaduto negli ultimi tempi, impuntarsi su questa questione mi pare davvero grottesco. Siamo di fronte al Csm più delegittimato della storia istituzionale italiana, dove scandali si succedono a scandali, dal quale non so più quanti componenti son stati costretti a dimettersi, del quale si chiedeva addirittura lo scioglimento da parte del capo dello Stato ed ora, improvvisamente, questo Csm, ritenendosi depositario di una ormai perduta correttezza istituzionale, diviene intransigente e fa le bucce – come si suol dire – a Davigo. Come, dire, insomma che se Davigo avesse ancora occupato la sua poltrona al Csm, allora gli altri componenti si sarebbero sentiti in difficoltà, come delegittimati a svolgere convenientemente il proprio ruolo a causa della presenza, fra di loro, di uno che – come Davigo – andando in pensione, non poteva più sedere in quel consesso. Insomma, costoro – non so ovviamente in modo preciso chi e quanti di loro – fanno finta di nulla quando l’intero organo frana sotto i loro piedi, travolto da un rosario di malcostume istituzionale e invece, nel caso di Davigo – alfiere della legalità, come loro stessi riconoscono – pensano bene di metterlo fuori dalla porta, anzi dalla finestra.

Non sorprende, poi, che a votare contro la permanenza di Davigo siano stati quelli di Magistratura Indipendente, la corrente dalla quale egli uscì, per fondarne una propria, dal momento che – come è noto – la vendetta, soprattutto in politica, va consumata fredda: e questi signori hanno atteso due anni, ma poi si son conseguentemente vendicati nel momento opportuno. Un poco di più sorprende invece che contro Davigo abbia votato anche Nino Di Matteo, ma entro certi limiti. Infatti, se è vero che Di Matteo fu eletto in quota alla corrente di Davigo, cioè con il suo decisivo appoggio, è anche vero che tutti sanno che in politica la riconoscenza è morta da sempre e perciò la irriconoscenza di Di Matteo non fa scandalo alcuno. Come si vede da quanto appena detto, il Csm ormai va reputato organo politico a tutti gli effetti, perché politiche sono le dinamiche che lo guidano e politica la sensibilità dei suoi componenti: e tuttavia, abusivamente, perché né la Costituzione né le leggi lo legittimano in alcun modo in sede politica. Ma anche di ciò, i suoi componenti – troppo impegnati ad occuparsi di Davigo – non hanno tempo di preoccuparsi.

E tuttavia, come dicevo, anche Davigo ha torto. Non intendo qui entrare nelle complesse motivazioni giuridiche che stanno a base delle rispettive posizioni, esercizio con il quale potranno divertirsi i futuri commentatori sulle più accreditate riviste giuridiche, limitandomi ad una sola, semplice osservazione. E cioè che aggrapparsi alla poltrona che si occupa a tutti i costi, cercando di resistere oltre ogni limite – come ha fatto Davigo – è esercizio che suscita soltanto disapprovazione, al di là di ogni invocabile ragione giuridica.

Bisognerebbe ricordare tutti ciò che disse Papa Francesco all’inizio del suo pontificato, quando avvertì che avrebbe nominato Vescovo chi non avrebbe cercato di diventarlo, mentre si sarebbe ben guardato dal nominare chi avrebbe sgomitato per divenirlo. Ora, lo spettacolo di Davigo che le tenta tutte, ma proprio tutte, per aggrapparsi ad una poltrona senza la quale sembra non possa continuare a vivere, è francamente penoso. Non so se risponda al vero, ma Piero Sansonetti scrisse mesi or sono (e ha ripetuto in un video due giorni fa) che, per compiacere Davigo, permettendogli di restare al suo posto per altri due anni, era stato predisposto addirittura un emendamento apposito da inserire surrettiziamente in un disegno di legge in tema di pandemia, allo scopo di allungare di due anni – il tempo cioè necessario a Davigo – il periodo di servizio dei magistrati. La cosa poi naufragò, perché appunto scoperta e denunciata dalla stampa. Insomma, una cosa da non credere.

Viene da chiedersi, fra l’altro, quale sia la ragione profonda che induca certe persone – in questo caso Davigo – ad umiliarsi a tal segno pur di restare in sella. Cosa debbono fare a cavallo di quella sella, cioè seduti su quella poltrona? Perché il potere tanto affascina? Perché tanto seduce? Perché Davigo, e altri come lui, sembra non possano farne a meno? E che dire allora di Enrico De Nicola, che fu trascinato a forza al Quirinale – quasi di peso – perché non ne voleva sapere di sedersi sulla poltrona di capo dello Stato?

Atri tempi? Certamente, ma anche altre persone, prima di tutto. Ci sono persone infatti che vivono allegramente per il potere. Altre che son chiamate invece ad esercitare, faticosamente, perfino dolorosamente, il potere per vivere. Ecco: i magistrati dovrebbero appartenere alla seconda categoria. Senza eccezioni. Neppure quella di Davigo.

Aggiornato il 23 ottobre 2020 alle ore 13:27