Sovranisti: liberali o conservatori? Purché affidabili

Di una cosa si può essere certi: la pandemia, quando sarà finita, consegnerà ai popoli un mondo diverso da quello che è stato prima. Se sarà migliore o peggiore, non dipenderà dal virus ma dagli individui e dalle società che s’impegneranno a risollevarlo dalle macerie che il male avrà lasciato al suo passaggio. La rifondazione non sarà solo economica e sanitaria ma riguarderà i modelli collettivi che, inevitabilmente, la paura e la diffidenza avranno riplasmato. Sarà in gioco l’allineamento gerarchico delle scale valoriali. Parliamo delle grandi scelte che orientano l’evoluzione dei sistemi economico-sociali e, a cascata, indirizzano la politica.

Lo stato d’eccezione che, in Italia, è stato prolungato oltre misura, ha ridato lustro all’interventismo della mano pubblica in molteplici campi della vita comunitaria e, in particolare, nell’apparato produttivo della nazione. Dagli aerei, all’acciaio, alle autostrade, alle banche, lo Stato mostra la sua ferrea mano nel guanto di velluto del principio di necessità. Quale più evidente segnale della tentazione neo-dirigista che indirizza l’azione di governo?

Lo stesso dicasi degli stili di vita che il Conte bis vorrebbe imporre alla cittadinanza col pretesto del contenimento del contagio. I liberali non dovrebbero avere dubbi nel contrastare in modo intransigente tali attacchi. Tuttavia, qualche domanda sul come possano tenersi insieme i diritti inalienabili degli individui e il bisogno di protezione che viene dalla comunità nazionale occorrerebbe porsela. Al riguardo, merita attenta considerazione lo scritto di Marco Gervasoni pubblicato su “Il Giornale”, dal titolo “Oltre liberali e sovranisti: diciamoci conservatori”. Gervasoni, in merito alle conseguenze socio-politiche del Covid-19, asserisce che il sovranismo, montato nel gradimento dell’opinione negli anni precedenti allo scoppio della pandemia, abbia bisogno di una radicale, profonda revisione. La violazione delle libertà individuali, di cui la gestione dell’emergenza sanitaria si è resa responsabile, spingerebbe a una trasformazione del sovranismo in direzione della tradizione liberale. Sarebbe anche un modo per l’ideologia sovranista nella sua declinazione italiana, che il filosofo del diritto, Paolo Becchi, qualifica come “debole” non avendo mai avuto un chiaro carattere nazionalistico, di recuperare il gap con la difesa delle libertà individuali e delle garanzie formali che, in passato, l’avrebbe portata a lambire equivoche sponde giustizialiste.

Ma Gervasoni non crede all’efficacia di un revisionismo sovranista in senso liberale perché “la stagione del liberalismo è finita per sempre”. A sostegno della sua argomentazione lo storico offre una constatazione empirica di un dato antropologico: “La maggior parte dei cittadini dei Paesi colpiti dal virus sembrano volontariamente e quasi felicemente barattare la libertà con la sicurezza”. Non ha torto. Bisogna prendere atto della realtà: l’enfatizzata obbedienza degli italiani nel rispettare le regole imposte dallo stato d’emergenza sanitaria, che hanno comportato la compressione di fondamentali diritti individuali di libertà, è stata dettata da un primario bisogno di protezione che la comunità, nella sua maggioranza, ha chiesto alla classe politica alla guida del Paese. Si guardino le percentuali di consenso riscosso dal premier Giuseppe Conte e dai ministri, nonostante la confusione, i pasticci, i guasti, le contraddizioni che i loro provvedimenti hanno generato. Qualcuno, a sproposito, dà degli idioti agli italiani che si piegano alle disposizioni del Governo. La realtà è che non si risolve la questione con la frusta teoria del gregge di pecore che temono il bastone del pastore.

La pandemia ha ribaltato il rapporto libertà/sicurezza come neanche la paura dell’invasione migratoria era riuscita a fare, spiazzando quel mondo liberale arroccato a difesa degli antichi ideali. L’opinione pubblica ha dimostrato fattualmente che la centralità dell’individuo nell’evoluzione dei contesti sociali informati alle libertà del cittadino e alle forme democratiche di governo può essere tranquillamente sacrificata in nome della tutela di un riconosciuto interesse collettivo. Ciò modifica totalmente il punto d’impatto delle idee liberali sul mondo reale, rendendole irrimediabilmente minoritarie e incompatibili con i principi generali dell’arte di governo. È il caso, virtualmente paradossale, dei governatori regionali di destra che, in via di principio, dovrebbero essere i vessilliferi delle libertà intangibili degli individui ma poi, messi davanti alla responsabilità delle scelte concrete, si propongono più realisti del re nell’applicare il regime delle restrizioni alla circolazione e alla socializzazione dei cittadini. A meno di non considerarli tutti dei mister Hyde e dottor Jekyll, con personalità bipolari, le loro prese di posizione segnalano la presenza di una palmare contraddizione tra la teoria e la prassi o, se si preferisce, tra pensiero e azione, che abita la coscienza profonda della destra italiana.

Seguendo il filo del ragionamento, Gervasoni propone una transizione da un pensiero liberale puro a un conservatorismo maturo, non passatista né tiepido, che abbia in sé elementi sostanziali di liberalismo ma che, sul punto di snodo della tutela prioritaria dell’interesse individuale rispetto a quello della comunità di persone, inverta la marcia favorendo la seconda sul primo. A Gervasoni va riconosciuto il merito di aver messo il dito nella piaga, non però quello di aver suturato la ferita. Il liberalismo è un’eredità preziosa che difficilmente potrà trasmigrare in altri contenitori ideologici senza rinunciare alle sue connotazioni identitarie. Già molto si è fatto nel separare la concezione liberale classica dalla degenerazione liberista, nell’accezione diffusa di motore ideologico-culturale della globalizzazione selvaggia e della finanziarizzazione dell’economia. Ma molto ancora si dovrà fare perché il bagaglio degli ideali liberali, antitetici, nella conquista dell’egemonia, alla presa autoritaria, tipica della sinistra, sui gangli vitali dello Stato, venga valorizzato nella ridefinizione dei paradigmi sociali del post-Covid.

D’altro canto, il conservatorismo presenta un indubbio vantaggio nell’essere portatore di un complesso di valori funzionali alla tenuta della coesione interclassista. I due pensieri possono verosimilmente coniugarsi, a destra, per rendere migliore il futuro delle società della post-modernità, a patto però che venga rimosso l’ostacolo di partenza, risalente all’età dei Lumi, della divaricazione tra conservatori e liberali: viene prima la persona o la comunità a cui l’individuo appartiene?

In attesa di risposta, per restare sul piano concreto della realtà incombente, la destra potrebbe ritrovarsi su un principio etico finora poco frequentato dalla sua classe politica: l’affidabilità. A proporlo è Marcello Veneziani in un articolo pubblicato da “La Verità” lo scorso 11 ottobre, dal titolo “Il passaparola è: addomesticare i sovranisti”. L’idea scaturisce da una premessa: la scarsa capacità programmatica della destra plurale. Per Veneziani la soluzione starebbe nella costruzione di una classe dirigente, originaria delle diverse anime partitiche della destra, in grado di presentare agli italiani un’offerta politica adeguata alle loro esigenze e, soprattutto, realizzabile. Perché allora non mettere in piedi un coordinamento permanente interpartitico, traendo le migliori risorse operative dall’esperienze delle regioni e degli enti locali oggi amministrati dalla destra, che svolga tre funzioni indispensabili: “a) suggerire alle 15 regioni linee comuni, iniziative comuni, programmi comuni in vari ambiti; b) scovare, valorizzare e poi magari formare e selezionare, politici e non, che possano essere lanciati nelle prossime esperienze di governo o elettorali; c) assumere il ruolo di governo-ombra rispetto a quello in carica, con ministri ombra e proposte alternative, come si dovrebbe fare in una seria democrazia dell’alternanza”?

Sarebbe il modo più efficace per avviare quel processo “fusionista” in termini ideologici auspicato, lato sensu, dallo stesso Marco Gervasoni. Si tratterebbe di passare dal dirsi liberali o conservatori a fare qualcosa da liberali e conservatori.

Aggiornato il 23 ottobre 2020 alle ore 13:28