La cessione delle libertà

Uno dei motivi per i quali amo il mio lavoro sono le trasferte giudiziarie. Sarà che la lettura in epoca adolescenziale di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller mi ha portato a simpatizzare per tutti i Willy Loman del Mondo, ma io quella babele di chilometri, caffè in autogrill, dialetti, odori e sapori l’ho sempre trovata sì stancante, ma incomparabilmente più affascinante della rassicurante e pigra comodità del posto (pure fisicamente) fisso.

Anche in epoca di pandemia questa particolare forma di turismo è assai istruttiva. Deprime e non poco inoltrarsi in città sempre più silenti, sempre più simili nell’eco dei tuoi stessi passi a certi, sempre a proposito dei luoghi dell’anima di un avvocato penalista, interminabili corridoi carcerari. All’inizio si resta sgomenti, ma poi alla fine si inizia a capire. Sia chiaro, il Covid esiste, di Covid ci si ammala e di Covid qualcuno muore. Ma c’è un falso grossolano, un raggiro da magliari, che ha imprigionato gli italiani: la condanna della libertà. Una muta di inetti, autoassoltisi da ogni errore dopo mesi di stato di emergenza e di poteri eccezionali, è riuscita ad ottenere un solo, ma rilevantissimo (per loro), risultato: barattare la patofobia degli italiani con la loro libertà.

In una frase, convincerci che per paura di morire non avremmo dovuto più vivere. Così è parso normale non pretendere, che so, di non viaggiare stipati come sardine sui mezzi pubblici, o di non dover sopportare ore di fila alle intemperie per un tampone, o ancora di non dover scalare le montagne per reperire un vaccino antinfluenzale (antinfluenzale!). No, tutti autoreclusi, prigionieri del messaggio (osceno) secondo il quale per garantire la salute mia e degli altri devo cedere le mie libertà fondamentali. Una follia, dalla quale l’inevitabile esplosione delle contraddizioni sociali, cui la crisi economica farà da detonatore, a breve ci sveglierà. Bonne chance Italia, ne avrai bisogno.

Aggiornato il 21 ottobre 2020 alle ore 13:32