La gente straparla. Per darsi importanza. Spesso millantando. Un mondo di poveri Cristi che non immagina di potere essere intercettato – magari se ha conoscenze importanti e scomode – e di poter essere conseguentemente “preso alla lettera”. Con le parole proferite la cui interpretazione da parte delle procure e degli inquirenti diventa un vero e proprio “processo alle intenzioni”, quasi stabilito per rito. E questo a maggior ragione quando in determinate indagini giudiziarie sono presenti anche delle tesi da dimostrare. Se non dei veri e propri teoremi mediatico-politici.

Sentendo a Radio radicale il processo disciplinare a carico del pm Luca Palamara, già a capo dell’Associazione nazionale magistrati degli anni ruggenti della cacciata di Silvio Berlusconi dalla politica, questa cosa salta agli occhi. Anzi alle orecchie. In particolare mentre la disciplinare stava “torchiando” un teste, il commercialista dello stesso Palamara. Cui si chiedeva conto del significato recondito di ogni sua affermazione fatta in una telefonata di due anni prima. Una volta le domande suggestive non erano permesse e bastava opporsi nel corso del processo per farle espungere dal dibattimento. Anche disciplinare, interno alla magistratura. Ora non più. Vengono tutte ammesse. Perché gli interrogatori non avvengono più secondo la stretta normativa processuale ma implicano un voyeurismo tipico del chi vuole sapere come va a finire quel che ha già letto sui giornali. Quindi ecco l’introduzione della nuova categoria dello spirito del diritto – si fa per dire – quella del processo alle intenzioni. Dell’imputato. Ma anche del teste. Ogni indagine rilevante politicamente e per l’opinione pubblica si trasforma in una specie di serie televisiva le cui ultime puntate si svolgono in tribunale o davanti a una Corte di assise. O nella fattispecie di fronte alla commissione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.

La colpa di questo andazzo è nel voler trasformare gli indizi dei colloqui captati in prove vere e proprie. Anzi, in totem da idolatrare. I processi nascono e muoiono nelle parole degli intercettati. Altri riscontri non sembrano possibili. Né tantomeno convenienti. Specie alla pubblica accusa. Che spesso crede di dover giustificare e fare approvare per plebiscito i propri teoremi davanti al tribunale unico e inappellabile dell’opinione pubblica. Non sottoporre prove certe a un regolare e giusto dibattimento.

Così sono stati possibili processi come “Mafia Capitale”. Vere e proprie telenovele alla fine delle quali abbiamo scoperto che l’assunto iniziale si era sgonfiato: né mafia né Capitale, solo bande di borgatari malviventi, qualche politico corrotto – specie di sinistra – ed ex estremisti di destra che si arrangiavano nella vita. Come potevano e come sapevano.

Aggiornato il 28 settembre 2020 alle ore 12:54