Il Recovery Plan non può essere concepito con la logica della maggioranza

venerdì 25 settembre 2020


Un Piano pluriennale, un programma organico a scala nazionale non può essere il prodotto di una maggioranza di Governo, non può essere una sommatoria di scelte immaginate e condivise da una sola componente del teatro politico ed istituzionale presente all’interno del Paese. In realtà la redazione di un Piano di ampio respiro strategico costituisce un caso in cui i canoni classici della democrazia vengono meno ed impongono una attenta rivisitazione delle modalità di approccio e delle logiche legate alla definizione delle scelte. Senza dubbio spetta alla maggioranza o, almeno, a chi, in un determinato momento storico, è alla guida del Paese delineare il quadro programmatico ma il passaggio alle scelte definitive, il passaggio alle conclusioni programmatiche di medio e lungo periodo non può che avvenire a valle di un confronto pieno, un confronto capace di coinvolgere davvero anche quelle forze politiche che in quel determinato periodo sono alla opposizione.

Il Recovery Plan dovrebbe utilizzare 209 miliardi di euro, una somma che comparata con quanto speso in conto capitale in passato si svilupperà, in termini di concreta erogazione, in un arco temporale di almeno 10-12 anni e invece, primo punto delicato del vincolo comunitario, dovrà avvenire entro e non oltre sei anni. Questo senza dubbio è un vincolo preoccupante ma ancora più preoccupante è la finalità dell’opera, una finalità che sicuramente coinvolgerà generazioni e schieramenti politici che oggi sono maggioranza e domani potrebbero essere opposizione.

Allora prende corpo la possibilità di richiamare una esperienza interessante, forse unica, che questo Paese ha vissuto alla metà degli anni Ottanta quando si decise di redigere il primo Piano Generale dei Trasporti e si dette vita ad una Legge, la n. 245 del 1984, che, cosa davvero strana, fu approvata alla unanimità; la legge trovò un Parlamento slegato da logiche di schieramento e ciò perché tutte le forze politiche, maggioranza ed opposizione, erano convinte che una Pianificazione strategica pluriennale non poteva essere un atto impositivo, non poteva essere un atto supportato dalle logiche di chi dispone di una maggioranza, di chi dispone di un consenso diffuso. Il Piano non doveva produrre un elenco di opere ma doveva affrontare dei cambiamenti che avrebbero modificato l’intero impianto gestionale ed infrastrutturale del Paese.

Solo a titolo di esempio riporto alcuni punti strategici affrontati e risolti dal Piano, punti che testimoniano la forte interazione tra scelta infrastrutturale e riforma; cioè punti simili a quanto richiesto oggi dalla Commissione europea nella redazione del Recovery Plan:

1) Il Paese doveva sbloccare il vincolo fisico che lo isolava dal resto dell’Europa e ciò poteva e doveva avvenire attraverso la realizzazione di nuovi valichi ferroviari;

2) Il Paese doveva recuperare il ruolo di una modalità di trasporto, quella ferroviaria per ridimensionare il rilevante peso del trasporto su strada (oltre l’80%) e ciò attraverso un potenziamento della rete ed un rilancio tecnologico tramite la realizzazione di un sistema ad alta velocità;

3) Il Paese doveva dare la massima trasparenza gestionale a due Aziende dello Stato che gestivano oltre l’80% della offerta infrastrutturale, cioè doveva trasformare in Ente pubblico economico le Ferrovie dello Stato e l’Anas;

4) Il Paese doveva poter disporre di nodi logistici capaci di garantire la intermodalità tra la strada e la ferrovia;

5) Il Paese doveva poter disporre di una offerta portuale non frantumata in 46 impianti ma solo in sette sistemi portuali;

6) Il Paese doveva poter disporre di due grandi Hub aeroportuali e di un sistema cargo adeguato alle esigenze di un mercato in evoluzione;

7) Il Paese doveva rendersi promotore, all’allora Comunità a 12 Stati, di una proposta mirata alla redazione di un Master Plan dei traporti a scala comunitaria.

Questo Piano, condiviso dal Parlamento nella sua più ampia articolazione, ha trovato attuazione e, addirittura, il Master Plan proposto durante la redazione del Piano, ha dato origine poi alle Reti Trans European Network (Ten-T); ebbene questo Piano che doveva vivere nel tempo e, come contemplato dalla richiamata Legge 245 essere aggiornato ogni tre anni, non poteva e non doveva essere il disegno di un gruppo di burocrati, non doveva essere il progetto di uno schieramento che in quella particolare fase della storia del Paese disponeva di una maggioranza numerica capace di “vincere”, capace di “decidere”, non doveva avere un respiro temporale corto ma lunghissimo.

Dopo questa lunga premessa mi chiedo se in questa delicata fase ci si sta predisponendo con la stessa umiltà, con lo stesso spirito collaborativo nella redazione del Recovery Plan. Non voglio con questo denunciare gli errori commessi finora dall’attuale maggioranza, voglio solo ricordare che con la veste dell’arroganza, con la veste dell’autosufficienza si possono produrre programmi che però rimangono tali o, nel migliore dei casi, diventano disegni incompleti supportati solo dallo schieramento che lo ha proposto e non da chi, nel tempo, sarà il garante della sua attuazione.

Sicuramente, come anticipato in precedenza, molti riterranno queste mie considerazioni una chiara proposta di coinvolgimento, nella redazione del Recovery Plan, delle attuali forze politiche di opposizione ed una interpretazione in tal senso delle mie considerazioni conferma il convincimento diffuso che, come dicevo all’inizio, la democrazia possiede dei canoni speciali quando è chiamata a varare un Piano pluriennale strategico, dei canoni che è difficile capire.

Tutto questo, purtroppo, mi dispiace perché, a mio avviso, mette in evidenza una vecchiaia culturale dell’attuale generazione, in particolare dell’attuale articolazione politica.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole


di Ercole Incalza (*)