L’ipocrisia dei politici che oggi commemorano Cossiga

Una commemorazione ipocrita non si nega a nessuno. Specie a chi come Francesco Cossiga, che ho avuto l’onore e il piacere di conoscere personalmente in maniera privata negli ultimi anni della sua vita, fin quando è stato vivo veniva considerato come un politico uscito di senno.

Ora che è morto da dieci anni è facile rivalutarlo storicamente come il gigante del pensiero e lo statista che indubbiamente fu. Ma fino a pochi giorni dal suo trapasso i pesci in faccia si sprecavano. E non da parte dei “nemici” leali come Marco Pannella – che mai gli perdonarono le sue ambiguità, i suoi silenzi e un bel po’ di bugie per carità di patria tese a coprire chissà quale ragione di Stato quel tragico 12 maggio 1977 quando ancora ignoti “sparatori istituzionali”, mischiati agli autonomi e come questi ultimi mascherati, misero fine alla vita della giovane Giorgiana Masi, scesa in piazza insieme ai Radicali, nonostante i divieti antiterrorismo, per celebrare il terzo anniversario della vittoria dei No nel referendum che voleva abolire il divorzio – ma da parte degli ex sodali del Pci-Pds e di quelli della sinistra Dc, cui apparteneva anche l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella, stufi degli attacchi a giorni alterni. Attacchi a volte personali (come dimenticare Achille Occhetto definito “Zombie coi baffi”) e a volte politici. Mirati proprio all’ipocrisia della classe di governo di quei primi anni Novanta. Come dimenticare poi i ripetuti “warning” che lo stesso Cossiga poneva allo strapotere della magistratura allora incipiente e poi dirompente durante gli anni di “Mani pulite”.

Cossiga era quello che minacciò di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli se il Consiglio avesse osato discutere il caso degli attacchi di Craxi alla casta in toga nell’ordine del giorno che era stato già stilato. Cossiga era quello delle polemiche sui giudici ragazzini dopo l’uccisione di Rosario Livatino, anche qui frainteso subdolamente come se se la prendesse con il morto ammazzato e non con chi lo aveva cinicamente mandato alla sbaraglio.

Fatto sta che nel giugno del 1991 Cossiga arrivò a un passo dall’impeachment che era sponsorizzato proprio da chi sei anni prima ne aveva favorito l’elezione a Presidente della Repubblica: ossia il Partito comunista e buona parte della Democrazia cristiana. Si salvò in corner, ma meno di un anno dopo fu praticamente costretto a dimettersi, era il 25 aprile del 1992, in piena Tangentopoli. Con un breve ma commovente discorso agli italiani nel quale avrebbe potuto togliersi più di un sassolino. Cosa che invece per spirito istituzionale non fece.

Finiti gli anni ruggenti delle picconate, Cossiga non accettò la vita da pensionato ma si imbarcò in varie avventure politiche tra cui quella del sostegno al Governo D’Alema e della fondazione dell’Udeur. La sua onestà intellettuale gli mise sempre contro tutto e tutti e ancora, nel 2008, venne deprecato da “urbi” e da “orbi” per il suo siparietto televisivo da Maria Latella in cui prese letteralmente per i fondelli l’attivismo dei magistrati della pubblica accusa contro Silvio Berlusconi e altri esponenti del centrodestra prendendo come bersaglio quel Luca Palamara, definito “tonno Palamara” (con evidente riferimento al quasi omonimo tonno Palmera) anche lui invitato da Sky.

Anche in quel caso coloro che oggi fanno a gara a condannare, esecrare e scaricare Palamara eleggendolo a unico capro espiatorio delle magagne del resto della magistratura, all’epoca emisero alti lai deprecando l’ex Presidente della Repubblica. Che oggi tutti chiamano “emerito” commemorandolo e che ieri tutti definivano “pazzo” quando ancora non era innocuo e ben seppellito in un cimitero.

Francesco Cossiga, l’uomo che si svegliava nella notte e urlava “Moro lo ho ucciso io”, il politico che nelle proprie audizioni alla Commissione stragi alzava la voce con l’ex presidente Libero Gualtieri e metteva a tacere tutti semplicemente ricordano loro chi erano e di “che lacrime grondasse e di che sangue” la rispettiva carriera politica; il politico di peso che per primo rivendicò l’innocenza degli ex Nar Francesca Mambro e Valerio Fioravanti nella strage di Bologna, puntando invece il dito proprio sulla pista palestinese poi venuta fuori in tutta la propria evidenza, non ebbe una vita facile.

A metà tra un personaggio delle tragedie di Shakespeare e un Messia democristiano non riconosciuto come tale all’interno di quel partito, ha passato gli ultimi anni in solitudine frequentando pochi fidati amici e pochi nuovi conoscenti. Tra cui il sottoscritto. Filoatlantico, amerikano con il kappa e filoisraeliano, amava esporre per vezzo quelle bandiere dal balcone di casa sua in via Ennio Quirino Visconti, 77.

Sentendo le commemorazioni dei giorni scorsi dall’aldilà non so se si rivolterà nella tomba o se si farà una grassa risata. Di certo con il suo spirito e con il suo pensiero questa Italia meschina e “borgatara”, a trazione grillin-populista-salviniana, dovrà ancora fare i conti per lungo tempo. Che sarà galantuomo anche nei confronti dell’ ultimo Presidente della Repubblica dotato degli attributi nei fatti mancanti a quasi tutti i suoi successori.

Aggiornato il 28 settembre 2020 alle ore 09:58