Che cosa succede alla destra riformista?

La coalizione della destra plurale ha un problema che si chiama Forza Italia. Il crollo verticale dei consensi al partito di Silvio Berlusconi ha radici profonde e solo una lettura superficiale, o sfacciatamente egoistica, della realtà potrebbe attribuire la disfatta elettorale alla cannibalizzazione operata dai sovranisti ai danni dei cosiddetti moderati dell’alleanza. Il nodo della questione sta nella frattura, resasi palmare, tra una classe dirigente forzista autoreferenziale e gli orientamenti di fondo della propria base elettorale. Non è vero, come afferma qualche suo dirigente, che Forza Italia abbia cominciato a perdere voti solo dopo le politiche del 2018. Il processo di erosione del consenso è cominciato ben prima. Il salto indietro più vistoso nello share degli elettori è avvenuto a seguito dell’infausta decisione di stringere il Patto del Nazareno con Matteo Renzi. Tra i molti peccati della classe dirigente forzista, il più grosso, e forse anche il più antico, è quello di non comprendere pienamente la natura di destra, ancorché riformista e moderata, del proprio blocco sociale di riferimento.

Essere per antropologia e non per convenienza appartenente a un campo politico-ideale implica una condizione semplicissima: non si desidera essere portati a stare nel campo opposto. Silvio Berlusconi ha avuto, negli anni Novanta, il merito storico di riunire in nome della rivoluzione liberale e dell’anticomunismo in un unico, sebbene articolato, schieramento tutte le anime che si agitano all’interno della destra. Ma ha commesso un errore: ha pensato di interpretare il mandato ricevuto dagli elettori come una delega rilasciatagli in bianco con l’avallo preventivo a qualsiasi scelta avesse compiuto. E il suo elettorato di rimando, quando ha temuto che i suoi rappresentanti si accordassero col “nemico”, ha rotto il patto fiduciario. Se vogliamo, è stato un peccato di arroganza pensare di poter prendere voti a destra per poi spenderli liberamente per fare accordi a sinistra. Vizio che i dirigenti forzisti non hanno perso, a sentire le dichiarazioni del post-voto. Il partito azzurro non ha colto lo spirito del tempo che ha innalzato la coerenza sul primo gradino della scala valoriale della politica. Lo ha capito Giorgia Meloni che ne ha fatto il refrain per il suo spartito comunicativo. Per molti aspetti anche il successo elettorale della Lega e dei Cinque stelle può essere inquadrato in tale ottica. La riprova è nelle odierne sconfitte pentastellate.

Se oggi i grillini sono alla frutta è perché la gente che li ha votati non si fida più di loro. Li giudica banderuole esposte al vento della convenienza. Nella Prima Repubblica si sarebbero chiamati “opportunisti”. Se si prendono voti promettendo di non fare accordi con il “partito di Bibbiano” e che si va in Europa per sbaragliare i poteri forti e poi si fa l’esatto contrario è ovvio che in Veneto, ad esempio, si finisca al 2,69 per cento. In casa forzista qualcuno si spinge a dire che in Forza Italia vi è un’eccellente classe dirigente, peccato che gli elettori non se ne siano accorti. Di più, che questa eccellente classe dirigente potrebbe guidare la coalizione della destra plurale sulle strade giuste. Chi lo afferma vive su un altro pianeta. Dopo essere stati azzerati nelle urne ancora si pretende che Lega e Fratelli d’Italia raccolgano i voti per poi consegnargli “all’eccellente” classe dirigente forzista perché li utilizzi a piacimento. Magari per fare un altro patto con Matteo Renzi (un cadavere politico che cammina) e perché no anche con il Partito democratico.

Se per assurdo Matteo Salvini e Giorgia Meloni accedessero a questa ipotesi velleitaria si troverebbero il giorno dopo fuori casa una folla inferocita di propri elettori pronta a linciarli. La verità è che per molti anni il decisionismo monocratico del presidente Berlusconi ha lasciato molto tempo libero a chi gli stava intorno. Alcuni di essi, i più attrezzati culturalmente, l’hanno occupato sperimentando le possibili miscele tra il pensiero socialista, nella sua vena liberal, o quello vetero-democristiano con le istanze e le parole d’ordine della destra. Oggi, che nei fatti Berlusconi non guida più il partito, una bizzarra anarchia baronale della sua classe dirigente prova a fare da sola, con pessimi risultati. Ma Forza Italia non è stata solo la conventicola di moderati e di “sagrestani” dei Sacri Palazzi che hanno bazzicato la corte di Arcore. L’altra faccia del forzismo, soprattutto al Sud, è stata quella di un partito gestito militarmente da un apparato locale clientelare che, dovendo perseguire i propri interessi economici e di potere, si è guardato bene dall’aprire le porte del partito alla società civile.

Non parliamo delle figurine di personaggi famosi con le quali completare l’album Panini. Parliamo di idee, di visioni, di programmi da costruire insieme al proprio popolo. Il “ghe pensi mi”, se reggeva a fatica quando pronunciato da un fuoriclasse qual è stato Berlusconi, messo sulle labbra di personaggi di contorno con chiare difficoltà nell’articolare discorsi compiuti in lingua italiana, è diventato un repellente fortissimo che ha annichilito l’opportunità per i ceti medi tradizionali, attivi sui territori, di esprimere una rappresentanza politica efficace e competente. Una grossa mano a peggiorare la qualità media del personale politico l’ha data il meccanismo elettorale delle liste bloccate. Che fare? Non possiamo dirlo noi, ma non vi è dubbio alcuno che l’immagine di Forza Italia abbozzata da Giovanni Toti, nel corso dell’intervista al Corriere della Sera di ieri l’altro, di “una macchina gloriosa ma vecchia, parcheggiata su un passo carraio che ostruisce sia l’entrata che l’uscita dalla casa dei moderati” sia la più vicina alla verità. Tocca ancora una volta al vecchio leone di Arcore compiere un grande gesto facendosi carico di rimuovere l’ostacolo che ostruisce il cammino alla rappresentanza dei liberali e riformisti.

La vocazione maggioritaria della coalizione può essere coltivata solo a condizione che vi sia una forte ala riformista a riequilibrare il rapporto di forza con i sovranisti. È indubbio che occorra una figura carismatica di leader che faccia da polarizzatore delle anime separate che affollano il riformismo liberale nel campo della destra italiana. Tale figura, per evidenti ragioni, non potrà essere più Berlusconi che dopo un quarto di secolo di battaglie politiche ha tutto il diritto di essere lasciato in pace, semmai di essere onorato come uno dei padri nobili della Repubblica. A nessuno è sfuggito che l’intervista concessa da Toti a urne calde abbia avuto come falso obiettivo Matteo Salvini.

Toti, il sornione, ha finto di prendersela con il leader della Lega allo scopo di mostrare a un disorientato popolo forzista che una speranza di ripresa c’è e lui, risultati alla mano, potrebbe impersonarla. Se così fosse sarebbe legittimo chiedere al Governatore della Liguria di non perdersi in tatticismi di palazzo ma di dichiarare apertamente le proprie intenzioni per far scaturire un salutare dibattito tra i riformisti di destra. Lancia un’Opa sulla leadership dei moderati? Lo dica, sia sincero con gli elettori. Perché Berlusconi potrà anche fare il beau geste di lasciare libero il passo carraio ma se si vuole andare lontano una nuova auto, capace di prestazioni performanti, qualcuno dovrà pure tirarla fuori dal garage di casa e metterla in strada.

Aggiornato il 24 settembre 2020 alle ore 11:25