Regionali tra finzione e realtà

Bisogna ammettere che la comunicazione di regime è fantastica: riesce a trasformare sconfitte in vittorie. E viceversa. Il circo mediatico parla di successo di Nicola Zingaretti e di disfatta per Matteo Salvini. È l’arte della narrazione che predilige la plasmabilità del verosimile alla spigolosità del vero. Poi c’è la realtà dei numeri che, come si sa, sono testardi, bisogna solo avere la pazienza d’interrogarli. E cosa dicono? Raccontano tutt’altra storia. Vero che la partita complessiva sulle 6 regioni al voto (teniamo fuori dal conto la Valle d’Aosta) si sia conclusa con un pareggio sulle presidenze assegnate: 3 alla destra, 3 alla sinistra. L’auspicato 4-2 per la destra non c’è stato. La Puglia, data dai sondaggi a Raffaele Fitto, è invece rimasta saldamente nelle mani di Michele Emiliano. Sarebbe questa la tacca sulla pistola fumante di Zingaretti? Michele Emiliano, ancorché etichettato Pd, lo si può ritenere organico al partito? Per quel che abbiamo visto e udito lo escluderemmo. Stesso dicasi per il sceriffo di Salerno, Vincenzo De Luca che gli stessi esponenti della sinistra faticano a considerare uno di loro.

De Luca ha vinto in Campania radunando un’armata di vecchi arnesi della politica, per lo più provenienti dal campo moderato del vecchio centrodestra. E una vittoria ottenuta così la si può attribuire alla sinistra? È vero che Nicola Zingaretti non perdendo la Puglia e la Toscana ma lasciando sul campo la periferica – si fa per dire– Regione Marche si consolidi alla guida del Partito democratico. Tuttavia, una non–sconfitta non si traduce in automatico in una vittoria. I numeri del Partito democratico sono negativi. Rispetto alle regionali del 2015 il Pd cala in tutte le regioni al voto mediamente del -6,3 per cento, con punte di caduta consistenti nelle Marche (-10 per cento) e nella osannata Toscana (-11,22 per cento). Neanche l’alleanza con i Cinque Stelle è stata un successo. Piuttosto, è stato un tonfo. In Liguria gli elettori dem hanno voltato la faccia al Pd per scegliere quella rubiconda del governatore uscente Giovanni Toti. All’ombra della lanterna, il partito di Zingaretti ha perso il 5,75 per cento rispetto al 2015, scendendo nella percentuale di lista sotto la soglia psicologia del 20 per cento (19,89 per cento). Eppure, prima dell’avvento di Toti la Liguria era considerata una roccaforte “rossa”. Oltre alla menzogna sulla vittoria zingariettiana, appare bizzarro il muro di silenzio che si è alzato sulla liquefazione del Movimento Cinque Stelle.

I capibastone pentastellati hanno provato a nascondere la disfatta dietro la vittoria del “Sì” al referendum sul taglio dei parlamentari come se il responso favorevole dei cittadini fosse cosa loro. Poi hanno provato a giustificarsi dicendo che paragoni numerici tra regionali e altri tipi di elezioni in cui è maggiore il peso del voto d’opinione non sono corretti. Anche prendendo per buona l’obiezione li abbiamo ugualmente stanati comparando il dato di domenica/lunedì con quello delle precedenti regionali. E per quanto provino a svignarsela dalle responsabilità del risultato catastrofico, la mazzata definitiva l’hanno comunque beccata. Sul 2015 hanno subito un calo medio, nelle sei regioni al voto, del 9,68 per cento. Ovunque hanno dimezzato i consensi rispetto alle precedenti regionali. Con un dato clamoroso: la Liguria. Nella patria del fondatore Beppe Grillo, dove hanno espresso un candidato della loro area, per di più in alleanza con il Pd, hanno rimediato il 7,78 per cento di lista con un crollo del 17,07 per cento rispetto alle precedenti regionali.

Nel 2015 il candidato del Movimento ottenne il 24,85 per cento dei consensi. In Campania, finora granaio elettorale dei pentastellati, terra di Luigi Di Maio, la lista grillina è precipitata al 9,92 per cento contro il 17,02 della volta precedente. Il dato Cinque stelle in Veneto è imbarazzante: 2,69 per cento. L’analisi dei flussi indica un doppio travaso dei consensi dai Cinque Stelle in minore misura alla destra, in maggiore al Partito Democratico. Fine di una breve ma strampalata storia. Sul fronte opposto, benché sia vero che alla destra non è riuscita la spallata, i due leader sovranisti, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, non hanno di che lamentarsi. Di là dalla conquista delle Marche che una propaganda maliziosa intesta a Fratelli d’Italia quando a dare il maggiore apporto al candidato Francesco Acquaroli è stata la Lega che ha il 22,38 per cento dei consensi, i numeri sorridono a entrambi i leader. La Lega aumenta i propri voti di lista nelle 6 regioni mediamente del 13,13 per cento.

Propri rappresentanti entrano per la prima volta nei Consigli regionali di Puglia e Campania. Nella discussa Toscana il partito di Salvini è al 21,78 per cento, attestandosi al secondo posto dietro il Partito democratico. Per quanto riguarda la Meloni, le è andata da favola. Nel 2015 Fratelli d’Italia doveva accontentarsi di un ruolo testimoniale navigando ovunque su percentuali inferiori al 5 per cento. Le urne di domenica/lunedì, invece, certificano il consolidarsi di una posizione da terzo partito, a livello nazionale, alle spalle di Lega e Pd. L’exploit meloniano si quantifica in un aumento medio dei consensi, nelle 6 regioni, pari al 7,56 per cento. La responsabilità del mancato successo nelle regioni tenute dalla sinistra va ricercata nel crollo generalizzato di Forza Italia. Per quanto il circo mediatico abbia tutto l’interesse a scaricare la croce su Salvini, la verità è che si è verificata la medesima condizione che ha portato la destra lo scorso gennaio a perdere in Emilia-Romagna. Il partito di Silvio Berlusconi è calato, rispetto al 2015 dove già si era verificata un’emorragia di consensi, di un ulteriore 6,13 per cento medio.

In Campania, dove aveva candidato alla presidenza un proprio uomo, Forza Italia ha avuto una perdita secca rispetto al 2015 del -12,53 per cento, precipitando adesso al 5,16 per cento. Una spiegazione plausibile potrebbe essere l’assenza forzata del vecchio leone di Arcore dal vivo della campagna elettorale a causa della malattia. Ma non è così. La guerra interna tra i quadri locali del partito; il trasloco in massa dell’apparato clientelare forzista alla corte di Vincenzo De Luca; l’assoluta inadeguatezza della classe dirigente locale sono le concause di una disfatta annunciata. Il partito berlusconiano ha un serio problema di ricambio generazionale che non è stato affrontato nei tempi giusti e ora, che la spinta propulsiva impressa dal carisma del capo si è esaurita, ne paga le conseguenze. Il crollo della gamba riformista della destra non è un problema riducibile alle sole dinamiche interne a Forza Italia: coinvolge l’intera coalizione.

Perché, numeri alla mano, la debolezza di una forza non più in grado di presidiare l’area liberale annichilisce la vocazione maggioritaria della coalizione stessa. La questione è complessa e merita un approfondimento che faremo in seguito. Al momento, ci preme sottolineare che certi facili entusiasmi non trovano riscontro nella realtà. Il che, tradotto, vuol dire: Zingaretti la pianti di atteggiarsi a vincitore perché non lo è. Nulla è cambiato rispetto a prima del voto, se non il tracollo dei Cinque Stelle e l’esito referendario. Il Governo resta in bilico e tutto può ancora accadere. Giuseppe Conte si preoccupi di scrutare il cielo, gli potrebbe capitare di vedere una supernova. Immaginiamo sappia cosa sia. È l’esplosione di una stella che prima di scomparire irradia una forte luminosità. Figurarsi il botto se ad esplodere sono 5 stelle tutte insieme.

Aggiornato il 24 settembre 2020 alle ore 10:02