Referendum, chi vince e chi perde

venerdì 18 settembre 2020


Un referendum è, lo dice la parola stessa, una prova di forza democratica con vincitori e vinti, facendo tuttavia presente che questo del 20 e 21 settembre si svolge in un quadro generale contraddistinto dalla vicenda del virus, cioè dalla paura.

Resta tuttavia da segnalare, in questa vigilia, qualche differenza nel senso che un simile appello al popolo si richiama ad un tema assai popolare come la riduzione, sic et simpliciter, dei parlamentari che pare addirittura scontato nel responso favorevole al ma che, al tempo stesso, ha suscitato via via riflessioni in senso contrario da parte di un ceto medio (politico) riflessivo orientato nei confronti del no.

Il che la dice lunga non tanto e non soltanto sulla demagogia e sul populismo che contraddistinguono la vera ragion d’essere della proposta del Movimento 5 Stelle ma, al tempo stesso, svelano un’analoga componente proprio in quei tanti partiti che, vuoi per convinzione atavica, vuoi per la faciloneria di partecipare al sì per timore di essere tacciati di difensori del vecchio, hanno chiamato gli italiani ad un referendum il cui risultato era ed è, molto probabilmente, scontato ma a favore dei pentastellati. E di Matteo Salvini, si capisce, ma questo è un altro discorso.

Ma per i pentastellati è un vero e proprio regalo.

Il fatto, ed è un fatto non un’opinione, è che se esce dalle urne un consenso più o meno ampio, questo va a vantaggio di un M5S che versa in una crisi grave, anche e soprattutto interna, ma che la non improbabile vittoria metterà a tacere favorendo loro la permanenza al governo e la spartizione del potere con quel Partito Democratico con cui aveva costruito un’alleanza per tagliare la strada a Salvini.

Già in questa scelta si annidavano i prodromi di un governo a due fondato più su un pretesto che su un programma ai cui propositi, peraltro, il Covid ha mostrato una presenza frenante, ma che ora, tempo di ricostruzione, ne rivela limiti e incapacità. Ciò che resta infatti di un’alleanza, per di più di opposti e sbandierata come il nuovo che avanza, e che governa, è il mantenimento del potere sempre e comunque.

La politica di e per il potere è tanto più vistosa quanto più praticata da un Movimento il cui capo, più o meno discusso ma sempre decisivo, inneggia alla liberazione della miseria, della povertà, delle differenze di classe e di ceti senza che gli altri politici rispondano a simili stupidaggini con una sonora pernacchia, forse per timore di essere di nuovo coperti di ingiurie e di insulti personali coi quali Beppe Grillo e i suoi seguaci, grazie a molti media compiacenti, hanno proceduto con scarpe ferrate ottenendo successo su successo.

La parola d’ordine è stata l’antipolitica contro i partiti corrotti, al motto di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, ritrovandosi ora a presiederlo senza, tuttavia, alcun cenno di pentimento per quei propositi.

Il referendum prossimo è frutto di una ideologia che col pretesto di una riduzione nei numeri senza alcuna correzione e aggiunta di altre riforme, si inquadra nei propositi di un Casaleggio senior, e pure junior, che ha assai spesso disistimato il Parlamento, a volte scambiando i pentastellati come portavoce del M5S, cioè di Rousseau, insultando in tal modo la sede più alta della volontà popolare coi suoi membri come rappresentanti della stessa.

C’è, insomma, un disprezzo per questa istituzione di cui una sua riduzione numerica è una spia preoccupante che, per taluni, ricorda l’odio nazista che chiese, ottenne e attuò la sua scomparsa in lontani eppure significativi tempi di crisi economica e politica. Poco o nulla di ciò sembra vedersi e qualcuno, giudiziosamente, ne spiega le ragioni anche nei livelli di intelligenza fra un Hitler e un Grillo.


di Paolo Pillitteri