Non è nostro costume commentare le indagini penali in corso. Il motivo è semplice: per giudicare bisognerebbe avere piena conoscenza degli atti a disposizione degli inquirenti; bisognerebbe aver sentito le spiegazioni offerte dall’indagato; bisognerebbe aver ascoltato le testimonianze rese dalle persone informate dei fatti; bisognerebbe essere entrati nella testa dei magistrati per conoscere quale processo logico deduttivo abbiano seguito dopo aver messo sotto la lente d’ingrandimento la vita e le opere di un individuo sospettato di aver commesso reati. Troppo per un comune cittadino, che rischierebbe soltanto di raccontare ai lettori un cumulo di sciocchezze. Cosa che, purtroppo, presso certo giornalismo di tendenza è prassi corrente. Ma nel caso giudiziario dei camici prima venduti e poi donati alla Regione Lombardia, per cui da ieri l’altro è indagato il presidente Attilio Fontana, facciamo uno strappo alla regola. Proviamo a ricostruire la vicenda sulla scorta di ciò che abbiamo appreso dai media. C’è una società che produce capi d’abbigliamento con il marchio Paul & Shark: la Dama srl. L’azienda il 16 aprile scorso, in piena bufera Covid-19, riceve da Aria spa, la centrale acquisti di Regione Lombardia, una richiesta di fornitura con affidamento diretto di 75mila camici per uso sanitario e 7mila kit per gli operatori ospedalieri impegnati nell’emergenza pandemica. Prezzo da corrispondere al fornitore: 513mila euro.

Ma Dama non è un’azienda qualsiasi. Appartiene ad Andrea Dini, che ne è l’amministratore. Dini è il cognato di Attilio Fontana. La moglie del presidente, la signora Roberta, è la sorella di Andrea Dini e possiede il 10 per cento delle quote di Dama srl. La fornitura viene avviata ma, in corso d’opera quando già l’impresa aveva emesso la fattura commerciale per il pagamento dell’ordine parzialmente evaso, i “bravi” giornalisti della trasmissione Report, in onda su Rai 3, mettono il naso nell’affare insinuando il sospetto che vi possa essere stato un conflitto d’interessi che avrebbe favorito l’azienda del parente del capo. Andrea Dini, probabilmente fiutando la rogna, decide di tagliare la testa al toro convertendo la commessa in una donazione alla Regione Lombardia. Quindi, la mano pubblica non c’avrebbe rimesso ma, al contrario, avrebbe guadagnato una partita d’indumenti protettivi, necessari come il pane in quel tragico momento, senza sborsare il becco di un quattrino. In qualsiasi altra parte della galassia si sarebbe pensato a un beau geste, sebbene indotto dalle circostanze, del titolare dell’azienda. Invece, no. Siamo in Italia, dove qualsiasi salmo che tocca la destra politica, finisce in gloria con l’intervento della magistratura. Che essendo afflitta da una rara forma di miopia selettiva fin dai tempi di Tangentopoli, vuole vederci chiaro, ma puntando lo sguardo sempre in una sola direzione. I magistrati della Procura di Milano indagano Andrea Dini e Filippo Bongiovanni, ex direttore di Aria spa per i reati di frode in pubbliche forniture e di turbata libertà del contraente. Il governatore Fontana, intuendo che gli si sta preparando il Natale con lui nella parte del cappone, mette le mani avanti dichiarando di non sapere nulla della vicenda.

Anche Bongiovanni, nel corso dell’interrogatorio, conferma ai magistrati l’estraneità di Fontana alla negoziazione per l’acquisto dei camici. I magistrati non credono ai due e cominciano a scavare nelle carte. In loro soccorso, il 22 maggio, arriva in Procura a Milano, trasmessa dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza, una segnalazione proveniente dall’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (Uif) presso la Banca d’Italia (l’Antiriciclaggio), di un bonifico di 250mila euro emesso da un istituto di credito svizzero su disposizione dell’avvocato Attilio Fontana, titolare presso l’istituto elvetico di un conto corrente. Destinatario del bonifico: Dama srl. La transazione finanziaria viene bloccata. I magistrati iscrivono anche il governatore della Lombardia nel registro degli indagati. Figurarsi, Fontana che prova a dare dei soldi al cognato prelevandoli da un conto all’estero. Quanto basta perché giornali, e giornalisti, del livello infimo del Fatto Quotidiano, c’andassero a nozze pregustando il polverone che avrebbero sollevato su un esponente di primo piano dell’odiato partito di Matteo Salvini. Fontana, che si sente come il capro prima del sacrificio espiatorio, si precipita a chiarire che non c’è niente d’illecito nella vicenda. Il conto in Svizzera carico di alcuni milioni di euro (beato lui!) se lo ritrova perché è stato un lascito di sua madre.

La posizione col fisco italiano sarebbe perfettamente regolare perché il governatore, una volta ricevuta l’eredità, avrebbe provveduto a denunciare il possesso di quella montagna di denaro avvalendosi della “Voluntary disclosure”. Ma perché Fontana avrebbe avvertito il bisogno di elargire una somma rilevante al cognato? E poi, dopo che Report aveva imbastito il presunto scoop sulla storia dei camici prima venduti e poi donati? La risposta di Fontana è quella di un galantuomo. Ha spiegato il governatore: “Mio cognato in questa vicenda ha avuto un danno economico che in parte ho ritenuto di risarcire di tasca mia”. A questo punto ci saremmo aspettati di udire una proposta per l’apposizione di una targa celebrativa in onore del governatore per aver deciso di sostituirsi allo Stato nel ripagare ad un privato un servizio comunque svolto a beneficio della collettività. Ma la nostra ingenuità è disarmante. L’unica cosa che Fontana ha ricevuto è stato un avviso di garanzia. Per cosa? Per aver truffato l’ente da lui presieduto e per aver anch’egli turbato la libertà del contraente avendo tentato di pagare personalmente la fornitura di beni utilizzati dai sanitari lombardi. Vorremmo essere frodati anche noi da Fontana come lo sarebbe stata regione Lombardia. Se vuole gli mandiamo subito l’Iban. La verità è che questa vicenda è uno schifo. Poi ci si meraviglia che all’estero abbiano paura di trattare affari in Italia. Con questa giustizia che perde il pelo dell’ermellino ma non il vizio di immischiarsi nei giochi della politica, come dargli torto? Non è bastato il caso Palamara a farli smettere. Alcuni magistrati continuano indisturbati a cercare di colpire i politici che non gli stanno simpatici. Siamo di nuovo ai provvedimenti giudiziari trasmessi in tempo reale alle redazioni dei giornali – megafono delle Procure. Non se ne può più.

Ha ragione Salvini quando parla di indagini a orologeria. Lo ha ribadito chiaro e forte ad Alessandro Sallusti, direttore del Giornale in un’intervista concessagli ieri: “Vogliamo parlare di un’inchiesta su una donazione? Vogliamo parlare dei trentacinque milioni che la Regione Lazio ha speso per mascherine mai arrivate? Su Nicola Zingaretti non c’è uno straccio di inchiesta, chissà perché”. L’obiettivo è far fuori il partito che si candida a vincere le prossime Regionali a mani basse. E dove lo si colpisce? Al cuore, naturalmente. Lì dove è più forte il suo radicamento territoriale. Nel caso della Lega: la Lombardia. Oggi il nemico da abbattere è Matteo Salvi, ieri era Silvio Berlusconi e l’altro ieri Bettino Craxi. Continuiamo così e si va dritti a sbattere. In un Paese serio il sistema giudiziario ispira la sua azione a equità che vuol dire anche equidistanza dalle parti in campo. Ma siamo in Italia. E se per qualche sacrosanto motivo la maggioranza parlamentare, che piace ai poteri costituiti in patria e all’estero, merita di essere mandata a ramengo dagli elettori, niente paura! C’è chi ci pensa a mettere le cose a posto.

Aggiornato il 28 luglio 2020 alle ore 10:25