Incompiuta Europa

giovedì 23 luglio 2020


Nella trattativa sul Recovery fund ha vinto l’Europa della solidarietà o ha vinto l’Europa dei nazionalismi?

La risposta non deve cedere alla suggestione anticipatrice dell’ideologia e men che meno della propaganda. Deve invece obbedire alla maggiore obiettività possibile. E allora, se si usa questo metro e si legge attentamente l’accordo del 21 luglio, si deve dire che l’Europa dei popoli e della solidarietà non ha vinto.

Il piano di ripartenza si regge su un pilastro centrale: l’accensione del debito di 750 miliardi da parte della Commissione europea. Questo pilastro, però, non risponde affatto a un disegno di collettivizzazione del debito stesso e dunque a una logica politica di solidale fratellanza, ma continua a rispondere, nonostante le limature intervenute durante la trattativa, a interessi nazionalistici molto accentuati.

Non s’intende negare lo sforzo profuso nel negoziato, si vuole dire che la scelta partorita a Bruxelles va spogliata della retorica sulla solidarietà, argomento usato con magniloquenza da un folto coro di attori politici.

Anzitutto il debito della Commissione è strumento eccezionale e non strutturale. Il testo dell’accordo, sul punto, è inequivoco: “L’Unione utilizza i fondi presi in prestito sui mercati dei capitali al solo scopo di far fronte alle conseguenze della crisi Covid-19”. E poi: “Il piano rappresenta una risposta eccezionale a una situazione estrema, ma temporanea”, pertanto “chiari limiti di entità, durata e raggio d’azione vincolano il potere di contrarre prestiti conferito alla Commissione”.

In parole semplici: è un intervento una tantum e mirato.

Si potrebbe tuttavia dire che, sebbene una tantum, il debito in capo alla Commissione non può che determinare uno sforzo comune di tutti i Paesi, di tutti i popoli. Chi più ha, più sopporterà il peso degli aiuti concessi a chi meno ha. L’animo solidaristico, perciò, invocato da Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Germania, ha finalmente trionfato.

Un’osservazione di questo genere, carte alla mano, sarebbe infondata. Nessuno Stato, in realtà, sopporterà il peso degli aiuti che andranno ad altri Stati. Si ripete: nessuno Stato si metterà sulle spalle i costi degli altri, né utilizzerà i propri bilanci per aiutare chi ha più bisogno. Tutti gli oneri saranno sostenuti con “la strategia di finanziamento diversificata” adottata dalla Commissione, ossia con gli strumenti della finanza di mercato, e con la revisione delle entrate proprie dell’Unione europea, vale a dire con nuove imposte. Solo in casi eccezionali e alla fine del piano, la Commissione potrebbe chiedere ai singoli Stati un contributo straordinario predeterminato. Niente di più.

L’ulteriore e altrettanto decisivo motivo che non consente di parlare di vittoria dell’Europa dei popoli, è questo. Il potere dato alla Commissione di trovare 750 miliardi è il grimaldello messo in mano alla Commissione stessa e al Consiglio dei capi di Stato e di Governo per entrare direttamente all’interno dei bilanci degli Stati membri, per indirizzare le scelte di spesa, per influenzare le riforme nazionali e per indicare le modalità di gestione dei denari pubblici. Sì, nell’accordo c’è anche questo: la Commissione detterà “le giuste condizioni per la rapida attuazione dei progetti d’investimento, in particolare nelle infrastrutture”.

Non si dice che questa strategia sia in sé sbagliata, magari è pure straordinariamente efficace, ma non è questo il punto che ora importa valutare. Si dice una cosa diversa: questa strategia non è frutto dello spirito di solidarietà fra i popoli! E il piano approvato a Bruxelles non segna nessun passaggio epocale per la costruzione di una casa comune!

Vero è, invece, che gli strumenti di valutazione e controllo che fanno da corona ai prestiti, da un lato e nell’immediato, potenziano i poteri della Commissione e, dall’altro e in seconda battuta, rimettono in partita il Consiglio e i singoli interessi nazionali. Qualora uno Stato sollevi dubbi sulla corretta attuazione degli investimenti da parte dei Paesi beneficiari, sarà proprio il Consiglio a dovere intervenire nuovamente. E dunque saranno gli egoismi nazionali a riaffacciarsi prepotentemente.

Non si vuole dire – si sottolinea di nuovo – che questa impostazione sia in sé sbagliata. Anzi, magari apporterà maggiore efficacia alle azioni dei singoli Paesi e dell’Italia in particolare. Basta avere chiaro in mente, però, che solidarietà, fratellanza, spirito di condivisione non fanno parte di questo gioco.

L’Europa dei popoli e della solidarietà era, è e sarà una Turandot senza finale, un’incompiuta ancora per molto tempo.

(*) agiovannini.it


di Alessandro Giovannini