Mauro Mellini, un genio incompreso in un Paese di finti talenti

La mia conoscenza pluridecennale con l’ormai compianto Mauro Mellini – morto venerdì notte a 94 anni – comincia perlomeno dal 1978. Quando era ancora nel vecchio e altrettanto compianto partito di Marco Pannella e si occupava dei pentiti del terrorismo di destra e di sinistra. Tanto che mi chiese aiuto per fare un piccolo pamphlet su questa gentaglia – lui la definiva così – per lo più serial killer che avevano pensato bene una volta presi di fare i nomi dei compagni o dei camerati loro complici nei tanti omicidi a sangue freddo. Il tutto per trovare la via di uscita dal carcere duro a vita. “Nihil sub sole novum”, se pensiamo alla successiva evoluzione del fenomeno del pentitismo mafioso e dintorni. Dovevo ancora finire il liceo classico ed era l’anno del rapimento di Aldo Moro. Addirittura in terzo classico dai preti giocavamo a fare la parodia dei comunicati delle Brigate rosse ritagliandoli su questo o su quell’insegnante che ci stava sulle scatole, e poi leggendoli in classe. Giochi cretini di altri tempi.

Mellini fu il primo che conobbi dentro al Partito Radicale e anche il primo a darmi una certa fiducia. Pannella all’epoca era quasi inarrivabile per un quisque de populo come me. I due in seguito ruppero sulla strategia del partito transnazionale che dal 1989 non si presentò più alle elezioni nazionali dicendo che non c’erano le condizioni per fare politica in Italia con l’informazione che ci ritrovavamo.

Mellini, che invece pensava si potesse continuare a svolgere operazioni come quella della elezione di Enzo Tortora al Parlamento europeo, si era convinto che la strategia di Pannella fosse quella della volpe e l’uva: “nondum matura est...”. Inoltre pensava che Pannella considerasse il partito come una proprietà personale e lo avesse ritirato dalla contendibilità politica. E aggiungeva che la trovata del transnazionale e transpartito era “una boiata pazzesca”.

Così, alla fine se ne andò sbattendo la porta e con Pannella terminò per sempre un rapporto politico e umano che era stato importante. Il tempo dette ragione a tutti due: partecipare alle elezioni in Italia per un partito che si occupa di massimi sistemi e di diritti umani e senza alcuna clientela è quasi inutile. Però non partecipare a prescindere usando questa cosa a mo’ di alibi politico è esercizio altrettanto sterile.

È come se la Roma e la Lazio non partecipassero più al campionato di serie A perché è vero storicamente che squadre come Juventus, Inter e Milan ricevono sempre qualche aiutino dagli arbitri o da chi per loro. Mellini era un convinto assertore che – comunque sia – “chi si astiene dalla lotta è un gran fijo...”, eccetera.

Fuori dall’ombra pannelliana, Mellini ebbe una seconda gioventù avvicinandosi ai liberali di Forza Italia. Indimenticabile fu la stagione della sua elezione al Consiglio superiore della magistratura nel 1994, su designazione di Silvio Berlusconi. Seminò il panico in un organismo che già all’epoca – e da anni – funzionava esattamente come abbiamo tutti constatato leggendo le ormai mitiche chat whatsapp di Luca Palamara.

Mellini iniziò anche a fare le pulci ai concorsi in magistratura che si erano susseguiti dal 1949 al 1994 e ne scoprì di tutti i colori. A cominciare dai giudizi dati dai commissari di esame dei primi concorsi tenuti nel dopoguerra in cui si diceva che i candidati erano delle capre ignoranti di tutto e soprattutto di legge e di diritto e che “…tuttavia andavano promossi vista la carenza di personale in un panorama post bellico…”.

Con un simile peccato originale si poteva capire tutto quello che ne sarebbe seguito.

Altri concorsi esaminati da Mellini tra gli atti che il Csm tiene nei cassetti per noi comuni mortali – ma che ogni consigliere pro tempore può chiedere di esaminare – ci stavano anche indizi e prove di numerosi concorsi truccati o pilotati, per lo più da altri e alti magistrati che facevano parte delle commissioni di esame e che facevano vincere i figli di altri e alti magistrati con una logica del “do ut des” identica a quella dei cosiddetti “Palamara boys”.

I risultati della ricerca di Mellini vennero poi consegnati a un’interrogazione parlamentare presentata da Forza Italia in Parlamento ma tutto finì lì, anche perché i giornalisti dell’epoca erano vigliacchi più o meno come quelli che oggi cercano di mettere la sordina agli scandali della casta in toga. Va detto che a Mellini i magistrati gliela fecero pagare: sommerso di querele e richieste di risarcimenti danni in sede civile, ebbe più volte la pensione da parlamentare pignorata e anche altri beni. Con chi scrive si lamentò spesso non tanto di ciò, quanto del fatto che erano stati “altri magistrati ad aiutare i loro colleghi a vendicarsi”.

Enumerare i ricordi di chi scrive con Mellini potrebbe essere una cosa molto lunga anche per un semplice e doloroso coccodrillo, quindi la finisco qui. Voglio però ricordare l’umanità e l’essere alla mano di Mauro, uomo buono, serio e accogliente, disponibile. Uno che non si credeva di essere “sto c…”, pur forse essendolo stato. Una figura più unica che rara di genialità e cordialità umana. A suo modo un vero e proprio talento boicottato e incompreso in un’Italia che iniziava a popolarsi di cretini che si credono di essere dei geni solo perché qualcuno li pompa sui giornali e sulle tv.

Mauro Mellini abbiamo cominciato a rimpiangerlo in vecchiaia quando era ancora vivo e scriveva per “L’Opinione” almeno un pezzo al giorno. Figuriamoci adesso che è morto. Pace all’anima sua e anche alla nostra.

Aggiornato il 06 luglio 2020 alle ore 11:45