Il caso del giudice Franco: le confessioni di un italiano

C’è una registrazione che circola da giorni. La voce captata è di un giudice della Corte di Cassazione. Non uno qualsiasi ma il relatore al processo che ha condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione Silvio Berlusconi per il reato di frode fiscale. Il magistrato in questione è il dottor Amedeo Franco, scomparso di recente. La confessione, oggetto della registrazione corsara, risale a poco dopo la sentenza di condanna, pronunciata dall’Alta corte l’1 agosto 2013 a carico del leader di Forza Italia. A raccoglierla è nientemeno che l’imputato medesimo: Silvio Berlusconi. Le frasi udite inquietano. Il dottor Franco parla di sentenza pilotata dall’alto, di un Berlusconi portato di fatto davanti a un plotone d’esecuzione per subire un verdetto già scritto; di una porcheria mai vista in anni di onorata carriera nella giurisdizione. La testimonianza informale, resa dal giudice del processo a cose fatte, restituisce l’immagine di un uomo tormentato, desideroso di alleggerirsi la coscienza da un peso insopportabile attraverso una sorta di autodafé autoassolutorio.

Certo, resta il dubbio del perché il povero giudice Franco non abbia pensato prima alla questione di coscienza, magari mettendo a verbale in Camera di Consiglio la contrarietà a quella che riteneva un’ingiusta condanna, ma abbia atteso la fine del processo per dirsi angustiato dall’esito del processo stesso. La “levata siriaca” della sua probità sopra la linea dell’orizzonte delle nefandezze umane avrebbe brillato di più intenso splendore. Ma tant’è. In Italia, Paese di grande teatro e buona musica, niente di più facile che il dramma finisca in melodramma. E lo strano caso di coscienza del dottor Franco non fa eccezione. Ad ascoltarlo sembra di viaggiare tra i tormenti di un Fëdor Dostoevskij e la profondità descrittiva delle pulsioni umane di un Gabriel García Márquez. Se fosse stato quest’ultimo a dare il titolo alla ricostruzione del backstage del processo a Berlusconi fornita dal magistrato, l’avrebbe chiamata: “Cronaca di una condanna annunciata”. Di fronte alla clamorosa rivelazione è stato ovvio che il circo mediatico si allertasse. Nessuno stupore, quindi, che qualche commentatore si sia unito al coro che ha gridato allo scandalo. Purtroppo, però, a noi la vicenda non ha procurato il medesimo sussulto morale. Per dirla tutta, pensiamo che il vero scandalo sia che ci si scandalizzi oggi per qualcosa che era evidente già al verificarsi degli avvenimenti in discussione. Che Berlusconi fosse stato fatto fuori politicamente da una sentenza giudiziaria non ci voleva la confessione di Franco a spiegarlo. Bisognerebbe tornare al clima dei maledetti giorni del 2011 per capire che la defenestrazione brutale del leader politico più amato dal popolo e più inviso all’establishment nazionale ed estero fosse la coda di una manovra di ribaltamento politico partita da lontano e alla quale avevano preso parte attori di spessore geopolitico di primaria grandezza.

È storia vecchia quanto il mondo quella del ricorso a mezzi non convenzionali per abbattere il nemico politico. Oggi i media si accaniscono sulle parole di una gola profonda che fa una chiamata in correità degli esecutori di un complotto ma che nulla dice dei mandanti. Che non sono quei tre sfigati del Partito democratico che si presentarono in televisione, guidati dall’allora segretario del partito Pierluigi Bersani, a comunicare che avrebbero completato l’opera espellendo il leader di Forza Italia dalla vita delle istituzioni repubblicane grazie a una forzatura interpretativa di una norma inetta (la cosiddetta legge Severino). Per riscrivere una trama che abbia un minimo di senso si deve partire dall’estate del 2010, quando è maturato nei mandanti il convincimento che il premier italiano stesse crescendo troppo sulla scena internazionale e cominciasse a dare fastidio. Ritorniamo con la mente a quel momento che segnò l’apoteosi di Berlusconi e allo stesso tempo fu l’incipit della sua rovina politica: la visita a Roma del leader libico Mu’ammar Gheddafi.

Nel 2011 si è combinata la tempesta perfetta. Due elementi l’hanno propiziata: la presenza al Quirinale di Giorgio Napolitano, il comunista che negli anni del suo mandato ha fatto di tutto per destrutturare la destra neutralizzando il suo leader e il tragico errore di Berlusconi di assecondare la guerra contro Gheddafi piuttosto che impedirla mettendosi di traverso. Persa la Libia, l’estate del 2011 è stata la stagione dello spread dietro cui la signora Angela Merkel si è parata per giustificare la sua discesa in campo a “normalizzare” la situazione politica italiana. L’autunno della nostra sovranità mutilata, aperto da quei sorrisi provocatori scambiati tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, si è concluso con la caduta di Berlusconi e la sua sostituzione con un uomo fidato dei poteri forti europei: Mario Monti. Ancora una volta i disegni per mettere sotto scacco l’Italia sono stati possibili perché dall’interno hanno operato le quinte colonne: la sinistra, alcuni ambienti industriali filofrancesi e tedeschi nonché il grande circo dei media di regime.

E poi, la centrale di manovra al Quirinale. Ma non ci si sarebbe accontentati di una momentanea uscita di scena del vecchio leone di Arcore perché a tutti era nota la sua capacità di conquistare il consenso popolare. Occorreva assestargli un colpo che lo stroncasse nell’animo per metterlo definitivamente fuori combattimento. Quale migliore veleno di una sentenza penale infamante? Berlusconi evasore e pregiudicato. La gente, nelle intenzioni dei complottisti, lo avrebbe preso a uova marce se lo avesse incontrato per strada. Per di più che in quel momento prendeva piede la formazione degli esagitati del comico Beppe Grillo. Sarebbero stati loro, con dosi industriali di becero moralismo giustizialista, a fare buona guardia al condannato Berlusconi. Ma hanno fatto male i conti, non hanno tenuto in debita considerazione la capacità di Berlusconi di sapersi fare, come dice lui, concavo e convesso. Il vecchio leone si è messo alla cappa aspettando che la tempesta passasse. Poi, un passo alla volta, si è rimesso in pista e, per paradosso, oggi si ritrova a gareggiare con la maglia dell’uomo della Provvidenza anche per quella sinistra che nove anni orsono lo voleva morto. Le parole del giudice pentito non aggiungono nulla alla vicenda più di quanto già si sappia.

In compenso, servono a tenere desta l’attenzione su quella magistratura autoreferenziale che ha operato per sostituirsi nel governo effettivo delle istituzioni a una politica spaventata e succube. Oggi potrebbe essere quella magistratura a finire sul banco degli imputati. Non saranno le non esaltanti ammissioni del giudice Franco a riabilitare la figura politica di Berlusconi e ad accertare il vulnus democratico che affligge la Repubblica dal lontano 1992. I fatti e la Storia si incaricheranno di rimettere le cose al loro posto. Tuttavia, riabilitazione non significa colpo di spugna sugli errori politici commessi dalla vittima. Alcune scelte sbagliate del leader di Forza Italia hanno favorito i piani della sua defenestrazione. Il partito azzurro chiede una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda. Fa bene a farlo, ma servirà a qualcosa? Di certo servirà allo sveglio di cervello Matteo Renzi che ha colto al volo l’opportunità della Commissione d’inchiesta per tenere per il collo gli alleati di Governo e la stessa magistratura. Si desidera invece ottenere un risultato concreto immediato che vada oltre il solito polverone della propaganda? Si affidi il commento della registrazione corsara al giudice Luca Palamara che, ad occhio, sembra avere una gran voglia di trascinare nel fango il sistema di cui è stato parte attiva fino a qualche tempo fa. Allora sì che ne vedremo e sentiremo delle belle. Altro che processo kafkiano.

Aggiornato il 02 luglio 2020 alle ore 11:41