Il sacrosanto ricorso al Tar di Marcello Viola per la Procura di Roma

mercoledì 24 giugno 2020


C’è da meravigliarsi se un magistrato integerrimo e capace come Marcello Viola – nonché lontano dalle degenerazioni correntizie che hanno squalificato l’immagine tanto del Consiglio superiore della magistratura quanto di buona parte dell’Associazione nazionale magistrati – faccia ricorso al Tar per la mancata nomina a procuratore capo di Roma che sembrava, circa un anno fa, per lui cosa fatta?

C’è da stupirsi se una persona che – cosa incredibile anche solo a raccontarsi – ha perso quel posto per essere stato nominato in alcune conversazioni chat di Luca Palamara, ed anzi definito dall’ex consigliere Luigi Spina (poi dimissionario) del Csm come “non ricattabile” e non condizionabile in alcun modo, oggi voglia cercare di ottenere quella chance di carriera che ingiustamente ha perso?

Ovviamente, no. Ma per Il Fatto quotidiano, che spesso mischia in queste cose il sacro con il profano, il suo ricorso al Tar contro la mancata nomina determinata da questi intrighi di palazzo, con memoria che dovrebbe peraltro ancora essere depositata, farebbe parte dei “ricorsi degli sconfitti”. Facendo credere implicitamente che il tutto poi possa nuocere all’attuale procuratore Michele Prestipino, altra persona degnissima e fuori da chat e intrighi, nominata dal Csm quando scoppiò come una bomba atomica la questione Palamara.

È un’abile maniera di mettere due persone – entrambe vittime della prassi correntizia – in imbarazzo. Una perché ha perso e l’altra perché ha vinto. Con la differenza che il cosiddetto “perdente” in realtà ha subito una doppia ingiustizia: non è stato nominato capo procuratore a Roma, benché in possesso di maggiori titoli ed esperienza del pur bravissimo Prestipino, ed è passato, grazie a questa decisione improvvida di Palazzo dei Marescialli, a suo tempo quasi come un arrivista punito. Invece che come uno che doveva essere fatto fuori perché “incorruttibile”. Dal colloquio tra Palamara e Spina si capisce che Viola non doveva diventare capo a Roma. E, “coincidenza” da classica eterogenesi dei fini, la decisione dell’anno passato da parte del Csm – che in teoria doveva fare pulizia al proprio interno e in pratica ha buttato tutto in caciara ribaltando solo gli equilibri politici delle elezioni precedenti – ha di fatto realizzato i desiderata contenuti in quella chat. È come se avessero reso un ultimo favore ai Palamara boys.

Così, dopo un anno di attesa, probabilmente per vedere come andava a finire il tutto (male, per non dire “in vacca”), sembra che Marcello Viola si sia deciso a fare ricorso. Ma per come dà la notizia il “Fatto”, oggi sembra quasi che abbia fatto una furbata. O chissà che cosa di losco.

A una pessima maniera di nominare i magistrati nei posti apicali da parte del Csm, a volte corrisponde anche una prassi confusa e non perfettamente onesta intellettualmente di spiegare al volgo chi siano i buoni e chi i cattivi. Giustizialismo sì, ma orientato ad usum delphini. Così Viola, vittima e magistrato integerrimo, sembra quasi che si debba vergognare del proprio eventuale ricorso. Come se la vittima di un torto molto grave dovesse abbozzare davanti a chi lo ha danneggiato per puro spirito di casta e di carità di patria.

Oltretutto pretendendo un comportamento che, se messo in atto, sarebbe stato quasi di omertà. Il tutto da parte di un signore che alle degenerazioni delle correnti, nonché a questa “monnezza” sempre correntizia che stiamo leggendo ogni giorno sui giornali, è sempre stato estraneo.

La logica, tutta italiana, fin dall’epoca del Regno sabaudo, che viene drammaticamente spiegata da Collodi nella fiaba di Pinocchio. Quando viene arrestato dai carabinieri dopo aver denunciato il gatto e la volpe.


di Dimitri Buffa