Hong Kong e il gigante cinese

lunedì 1 giugno 2020


Quando nel luglio del 1997 la sovranità su Hong Kong è passata dalla Gran Bretagna alla Repubblica Popolare Cinese, non sarebbe stato difficile prevedere che, prima o poi, sarebbero sorti dei gravi problemi e che la regola “un Paese, due sistemi”, sarebbe entrata in crisi. Per comprendere ciò, sarebbe stato sufficiente riflettere un po’ sulla natura politica del gigante cinese e su quella di Hong Kong, la cui vita ha beneficiato per oltre un secolo e mezzo della presenza britannica e dell’assetto istituzionale reso possibile da tale presenza. Abbiamo allora creduto, o forse sperato, che quel passaggio di sovranità potesse facilmente trasmettere al Paese il contagio della libertà.

I nodi sono però venuti al pettine. E le proteste messe con coraggio in atto dai cittadini di Hong Kong, nei confronti della volontà egemonica di Pechino, non hanno avuto, da parte dell’opinione pubblica internazionale, l’attenzione che fin dal primo momento avrebbero meritato. Alcuni hanno pensato che, in cerca di alleanze in campo occidentale, la Repubblica Popolare Cinese avrebbe evitato di esporre crudamente al mondo la sua vocazione repressiva. Altri hanno ritenuto che quelle di Hong Kong dovessero essere in ogni caso considerate delle vicende interne a uno Stato sovrano. L’uno e l’altro atteggiamento sono stati un errore grossolano.

Bisogna in primo luogo tenere conto che la Cina è una versione dello Stato totalitario: un comunismo nato sulla lunga e solida tradizione del “dispotismo orientale”. Il che costituisce il dato duro e ineludibile della situazione; il dato che ci dovrebbe far comprendere quanto le blandizie rivolte dai cinesi ad alcuni Paesi del mondo occidentale siano un’interessata e professionale ipocrisia, a cui possono dare credito solo dei dilettanti, incapaci di cogliere il coefficiente di tragicità presente nella vita e nella politica. Occorre poi considerare che la soppressione della libertà individuale, o la sua forte limitazione, non può mai essere considerata come un fatto interno alle vicende di un singolo Paese. Molti di coloro che sono stati perseguitati dai regimi totalitari del Novecento hanno avuto solidarietà e aiuto da parte delle democrazie liberali. E noi che beneficiamo della libertà individuale di scelta non possiamo abbandonare al loro destino degli uomini e delle donne che vogliono vivere come noi, che lottano contro un potere che pretende di spegnere la loro voce e che possono sperare di evitare la capitolazione solo se avranno il sostegno dell’opinione pubblica internazionale.

La situazione dev’essere valutata con tutta la serietà del caso: perché la “mano nera” di Pechino, mentre cerca di spezzare la resistenza di Hong Kong, invia anche minacce agli abitanti di Taiwan.

In quanto tale, il potere totalitario non tollera alcun dissenso o alcuna diversità. Ogni cosa dev’essere conforme al proprio volere e ai propri piani. Tutto ciò che non lo è viene interpretato come un’inammissibile minaccia, che deve spingere all’immediata mobilitazione. Come è ben noto, la realtà è però ribelle. E anche i piani meglio formulati sono il prodotto di un’ideologia che ha già ampiamente mostrato il suo fallimento. Il potere totalitario deve quindi venire a patti col mondo. Gli esempi che si possono trovare nella storia sono tanti. Basti pensare alla Nuova Politica Economica (Nep) posta in essere da Lenin. Nel caso cinese, è accaduto che, dopo decenni di politica autarchica, che ha condannato alla più indicibile miseria il settanta per cento della popolazione, la burocrazia carismatica si è dapprima aperta agli scambi internazionali e poi è entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Le cose sono cambiate radicalmente. Il compromesso imposto dalla necessità ha dato i suoi frutti. Ma è rimasto il partito unico e il parossistico dominio della politica su qualunque tratto della vita sociale.

Pechino si trova ora davanti a un crocevia: da una parte, c’è la sua vocazione egemonica che teme ogni diversità e che ne pretende la cancellazione; dall’altra, c’è la necessità di trarre vantaggio dall’integrazione negli scambi internazionali. Bisogna dare prevalenza alla volontà egemonica o al benessere? Deve prevalere l’autoreferenzialità del potere o lo sviluppo del Paese? La Cina dipende oggi dal mondo libero più di quanto il mondo libero dipenda dalla Cina. La nomenklatura cinese deve perciò temere l’interruzione dei rapporti economici con i Paesi occidentali più di quanto possa temere la fine del comunismo. Deve cioè comprendere che buttare alle ortiche il compromesso in atto può avvicinare, piuttosto che allontanare, la caduta del regime.


di Lorenzo Infantino