Governo, se l’unità è solo contro Salvini

La vicenda Open Arms è quanto mai esemplare dello stile (siamo buoni) di un governo e di una maggioranza a proposito dell’ex ministro Matteo Salvini. Una maggioranza tipica dei “fratelli coltelli”, con divergenze interne su tutto o quasi, con approcci distinti spesso per l’incapacità grillina non disgiunta dall’arroganza degli inetti ma che ritrova un’unità ogni qual volta sventoli lo straccio del giustizialismo: contro il nemico, soprattutto Salvini. Mandarlo a processo era un’evidente manovra politica fondata sul nulla giuridico peggiorato dalla frase intercettata di Luca Palamara che “bisognava comunque attaccare Salvini”, in presenza, tra l’altro, di un silenzioso Giuseppe Conte, in genere chiacchierone in tivù, che, in quanto primo ministro, avendo la direzione dell’indirizzo politico, era corresponsabile dell’operato del suo ministro dell’Interno.

L’altro protagonista in un silenzio, rotto da argomentazioni puerili e indegne di qualsiasi tradizione popolare, è stato ed è il partito di Nicola Zingaretti, adagiato letteralmente sulle posizioni oltranziste di un M5s, la cui principale vergogna è stata nel votare contro Salvini, come nel caso Gregoretti, pur avendone condiviso la responsabilità politica nelle scelte di allora. Questa sorta di Union Sacrée antisalviniana viene meno dopo ogni operazione, mostrando una maggioranza che rivela molto frequentemente i casi di divergenze tra ministri alle quali è costretto ad impegnarsi un Conte, risolvendole con compromessi sostanzialmente verbali. Ultimo il caso degli “assistenti civici”, che il ministro Francesco Boccia voleva assumere nel numero di ben 60mila, senza peraltro chiarirne funzioni e limiti, suscitando le proteste dei responsabili governativi dell’Interno, Difesa e Lavoro oltre che il dissenso di quasi tutti i partiti di maggioranza. Giuseppe Conte è corso, si fa per dire, ai ripari con un compromesso dal quale si evince che tali assistenti non avranno né compiti né poteri di pubblica sicurezza, e che dunque non potranno fare niente.

È il replay di qualche giorno prima, con la questione del concorso per l’assunzione di insegnanti precari, una vera e propria mina disinnescata, si far per dire, dal solito presidente del Consiglio nell’ennesima riunione notturna a Palazzo Chigi per l’immancabile compromesso: il rinvio all’autunno col rischio della consueta “girandola di cattedre” dell’inizio dell’anno scolastico che già si preannuncia molto complessa per le difficoltà di garantire la sicurezza sanitaria. E che dire delle baruffe a proposito della regolarizzazione dei migranti clandestini, delle concessioni autostradali, del prestito a Fca. L’attesa è ora per la riforma di giustizia e Csm sbandierata da Alfonso Bonafede, sulla quale saranno di scena diversificazioni che il Pd ha annunciato sventolando a sua volta un garantismo di parole ma che i fatti, ovvero il compromesso contiano, ridurrà a ben poca cosa, se non peggio.

In un contesto in cui l’emergenza impone scelte e soluzioni immediate, il cammino del governo, passando da una mediazione all’altra, è contraddistinto dai rinvii prodotti dagli accomodamenti al ribasso, in un quadro operativo in cui prevale l’indeterminatezza normativa, se non l’incomprensione, invece dell’immediatezza. Certo, la maggioranza tiene, ma per un solo motivo: la paura di una crisi che porterebbe alla vittoria del centrodestra e di quel Matteo Salvini che rappresentò il vero collante per una coalizione costruita non su un accordo politico sul che fare ma per sbarrare la strada a un’alternativa di centrodestra a trazione salviniana. Un Matteo Salvini di cui i sondaggi rivelano una decrescita compensata, tuttavia, dal segno più di una Giorgia Meloni che vuole essere misurata su proposte e progetti, mentre il Cavaliere traccheggia con le sue tre reti televisive, sulle quali è stato posto il cartello: qui non si fa politica, qui si lavora!

Aggiornato il 29 maggio 2020 alle ore 18:16