L’odissea giudiziaria di Bruno Contrada

Lo Stato italiano ha devoluto a Bruno Contrada la somma di 670mila euro, quale risarcimento per gli otto anni di detenzione subiti nel corso della sua vicenda processuale, durata complessivamente ben 28 anni. Facendo i conti di aritmetica, gli sono stati assegnati circa 230 euro per ogni giorno di detenzione, mentre gli altri 20 anni di persecuzione giudiziaria vengono gratis, nel senso che lo Stato non sente il bisogno etico e neppure politico di risarcirli in alcun modo. Peccato che nel corso di questa odissea giudiziaria, Contrada abbia ovviamente perso il posto; si sia ammalato gravemente; sia stato pubblicamente diffamato e calunniato per tre decenni; la moglie sia stata anch’essa gravemente colpita da una patologia invalidante; il figlio, in polizia, abbia avuto la vita e la carriera del tutto rovinate dalle vicende giudiziarie del padre. Insomma, una catastrofe umana, sociale, politica, giudiziaria.

Che dire? Che la cosa che sorprende non è soltanto l’esiguità del risarcimento – parificabile al costo giornaliero di una camera di un Hotel 4 stelle in bassa stagione – ma soprattutto il fatto che la vita sociale e istituzionale riprenda come nulla fosse, come nulla fosse accaduto. Ed in effetti, per molti, per troppi, nulla è accaduto di meritevole di considerazione, trattandosi per costoro – e purtroppo anche per le istituzioni – di uno dei tanti casi di erroneo esercizio dell’azione penale, forse particolarmente duraturo nel tempo, ma di nulla di diverso. Nessuno, dico nessuno che si senta di mettere il dito nella piaga. E la piaga è che va riconosciuto essersi trattato di una attività giudiziaria perpetuata con accanimento e senza un fondamento oggettivamente riconoscibile, al punto che la Corte europea dei diritti dell’uomo ne ha riconosciuto la illegittimità in quanto, al momento dei fatti a lui contestati, l’ordinamento giuridico italiano non contemplava il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

In altri termini, Contrada è stato trattato in questo modo per fatti che la legge italiana non prevedeva come reato, con tanti saluti al principio di legalità sbandierato ai quattro venti da giuristi e politici di tutti i partiti! In un contesto umano sufficientemente civile, ci si aspetterebbe allora che nascesse un movimento spontaneo per chiedere che gli autori di un simile scempio del diritto fossero individuati con nome e cognome e fossero chiamati a risponderne. O che esponenti delle istituzioni si attivassero in tal senso; che so, il Consiglio superiore della magistratura, il ministero di Grazia e Giustizia, la presidenza del Consiglio, il Quirinale. Niente. Silenzio assoluto. Ostinato. Indifferente. Ma anche eloquente. Un silenzio che parla e che dice che è meglio lasciar perdere, metterci una pietra sopra, sperando che Contrada, già avanti negli anni, possa essere altrove chiamato per un giudizio diverso e diversamente esigente.

Non solo. Nessuno ha un rigurgito di coscienza. Tutti tacciono guardando altrove. Probabilmente anche l’opinione pubblica è troppo distratta da epidemie, crisi economiche, Eurobond e cose del genere per capire fino in fondo cosa il caso Contrada significhi per ciascuno di noi. Bisogna infatti capire che ciò che è capitato a Contrada riguarda ciascuno di noi molto da vicino. E ciò non per semplice vincolo solidaristico nei suoi confronti – dimensione forse oggi poco frequentata dai tanti moralizzatori sociali che, impegnati a fustigare i costumi altrui, non vedono le proprie colpe – ma perché la violazione dei principi fondanti dello Stato di diritto impunemente perpetrata rende per ciò solo possibile una sua replica nei modi e nei momenti sottratti ad ogni prevedibilità.

Dico che tutti siamo in pericolo per almeno due motivi. Per il primo, perché il reato contestato a Contrada – cioè il concorso esterno in associazione mafiosa – non solo non esisteva al quel tempo, ma continua tranquillamente a non esistere, cioè a non essere contemplato da nessuna norma del Codice penale o di una legge speciale. Eppure, si continua pacificamente a condannare la gente per questo reato, nefando e perverso frutto di pura creazione giurisprudenziale, evitando di converso ogni tentativo di emanare una norma penale specifica che ne possa individuare la sostanza e anche i limiti. Ciascuno di noi è insomma abbandonato in balia di una giurisprudenza tribunalizia arbitra del nostro destino: l’esatto contrario di quanto dovrebbe accadere in uno Stato di diritto.

Il secondo motivo di pericolo muove invece da un possibile timore e cioè dal fatto che, al pari di quanto accaduto per il concorso esterno, i Tribunali potrebbero domani o dopodomani escogitare una nuova creazione penalistica, mettendo a repentaglio la vita e la libertà di chiunque. Sicché, oggi, nel perdurante silenzio di chi dovrebbe parlare e invece tace, il solo rimedio per una tale incresciosa situazione pare la capacità critica, il pensiero. E il pensiero non può che muovere – ed esserne figlio – da quello di Leonardo Sciascia, quando si augurava che ogni giudice, prima di prendere servizio, fosse tenuto a soggiornare per almeno una settimana a Poggioreale, allo scopo di conoscere in modo diretto e personale il destino di chi dovrà essere da lui giudicato e condannato; allo scopo di serbarne indelebile memoria. E, aggiungo io, allo scopo di acquisire consapevolezza che, come scriveva Aleksandr Solženicyn, “un tribunale iniquo è peggio di un brigante”.

Aggiornato il 09 aprile 2020 alle ore 12:42