L’assoluzione del Cardinale Pell

Il calvario del Cardinale George Pell, già stretto collaboratore di Papa Francesco, è terminato ieri, davanti alla Alta Corte australiana che ha annullato, senza alcun rinvio, la sentenza emessa in grado d’appello che, confermando quella di primo grado, lo condannava a sei anni di reclusione per abusi sessuali su soggetti minori.

Cerchiamo di capire meglio ciò che questa vicenda insegna a giuristi e non giuristi.

Innanzitutto, va rilevato che l’Alta Corte – qualcosa di simile alla nostra Corte di Cassazione – non ha ritenuto neppure di rinviare, dopo averne annullato la sentenza e come pur avrebbe potuto fare, alla Corte di Appello per un nuovo giudizio di merito. No.

Invece, ha annullato in modo puro e semplice, per la ragione che non ha ravvisato neppure esservi spazio per la formulazione di un nuovo giudizio, stante la totale infondatezza della sentenza di condanna. E questo già fa capire parecchio di questa vicenda.

In secondo luogo, va stigmatizzato come i fatti per cui il cardinale è stato chiamato a rispondere si riferissero a vicende accadute nella prima metà degli anni Novanta, cioè ad oltre 25 anni fa.

Bene, anzi male, malissimo. Sarebbe infatti il caso che qualche benpensante cercasse di spiegare come si fa a difendersi da accuse tanto risalenti nel tempo, come si fa a ricordare le circostanze, le persone, i comportamenti, gli eventuali testimoni, mentre la inevitabile nebbia che circonda il lontano passato tutto confonde in una inevitabile, indistinta dimenticanza.

Quella dimenticanza (Lete, il fiume del benefico oblio nel mito platonico ) che – secondo Henri Bergson – costituisce per ciascuno di noi una vera valvola di salvezza, senza la quale saremmo tutti condotti alla pazzia: vi immaginate una esistenza in cui non si dimenticasse nulla, ma proprio nulla, fino al particolare più insignificante di ogni giornata, di ogni gesto, di ogni pensiero? Le porte della follia si aprirebbero per inghiottirci, come seppe mostrare Borges in un suo celebre racconto, il cui protagonista – Funes – nulla dimenticando, alla fine muore, annientato dal peso insopportabile della propria memoria.

E qui sta, fra l’altro, una delle ragioni che militano a favore della prescrizione dei reati, tanto aborrita da Beppe Grillo e dai suoi adepti, i quali probabilmente non hanno, in proposito, idee abbastanza chiare. Anche perché una pari difficoltà grava sulla pubblica accusa, impossibilitata essa stessa a trovare prove a carico dell’accusato, a tanta distanza di tempo.

Insomma, si accusa e ci si difende sul nulla, perché il passaggio del tempo tutto ha offuscato.

Va poi rilevato come uno dei giudici di Appello, ravvisando la assurdità delle accuse, avesse espresso un “parere dissenziente” in ben 170 pagine di motivazione favorevole alla assoluzione: insomma un libro intero per argomentare la innocenza di Pell, scritto non dal suo difensore, ma da uno dei giudici. E bastava questo par far molto pensare e dubitare della fondatezza della condanna.

Tuttavia, questi ha trascorso quasi due anni in prigione e l’ultimo, dopo la condanna in Appello, in un carcere di massima sicurezza, in un regime, cioè, particolarmente duro, riservato ad un essere umano di 78 anni. Al contrario della Corte d’Appello, che decise a maggioranza semplice per la condanna – e uno dei cui giudici redasse quel parere contrario di cui ho detto sopra – l’Alta Corte ha scagionato Pell all’unanimità: sette giudici su sette hanno ritenuto che le accuse fossero del tutto infondate ed inverosimili.

Infatti, solo chi abbia poco senso della realtà potrà ritenere plausibile che siano stati adescati due minori, mentre il Cardinale, terminata la funzione eucaristica, in sacrestia svestiva i paramenti sacri e decine di persone – come usa – passavano e spassavano intorno a lui: forse un abuso addirittura in pubblico?

La incredibilità della condanna risalta poi ancor di più se si consideri che essa si fondava – per dir così – su una sola prova testimoniale: quella di una delle presunte vittime, mentre l’altra era deceduta già nel 2014.

Evidentemente i giudici (ammesso si possa loro riservare questo appellativo) hanno dimenticato il vecchio e venerabile brocardo romanistico, per il quale “unus testis, nullus testis”, e tanto più se addirittura il teste si identifichi con la presunta vittima.

Qui davvero c’era solo da appallottolare in fretta i documenti accusatori per manifesta infondatezza e liberarsene subito: invece anni di procedimento a carico, incarcerazione, umiliazione pubblica, scandalo in tutto il mondo, un calvario che si spera valga il Purgatorio per il Cardinale. E meno male che presso l’Alta Corte ancora siedono veri giudici che, non limitandosi a vestire la toga, a tale appellativo danno cuore e sostanza.

E che pensano Gratteri, Travaglio, Davigo di questa vicenda? Visto che costoro, sia pure con sfumature diverse, hanno affermato che bisognerebbe – per sveltire i processi – abolire del tutto perfino il grado di appello, forse questa vicenda potrà convincerli del contrario?

Forse penseranno che dopo tutto sia meglio essere “lentamente” assolti, invece di correre “lestamente” verso la carcerazione per diversi anni? Penseranno che in casi del genere, l’errore dei primi giudici era così evidente da poter esser visto – come dice Manzoni – da quelli stessi che lo commettevano?

Me lo auguro. Per comprendere la necessità dei vari gradi di giudizio a tutela delle ragioni dell’accusato e della stessa giustizia, non occorre peraltro essere giuristi: è sufficiente possedere una coscienza eticamente avvertita. Appena.

Aggiornato il 08 aprile 2020 alle ore 12:30