Emergenza e cambiamento, in meglio?

mercoledì 8 aprile 2020


Cambieranno le cose nel nostro Paese? Si rinnoverà la politica, e più terra terra, cambierà il Governo? Avverrà l’auspicabile cambio? Che fine faranno Giuseppe Conte e la sua maggioranza? E, dunque, potrà finire il populismo che ci ha accompagnato per anni? E, pure, il giustizialismo praticato tuttora da movimenti (M5S) e dai loro ministri, contagiati a loro volta dal virus dello statalismo?

Da diverse parti, praticamente da tutte, proviene e s’alza la previsione, se non la certezza, che “tutto non sarà come prima”. Un augurio, una speranza, una sicurezza di un cambiamento ampio, generale, storico, che va dai comportamenti individuali a quelli collettivi, dalla società nazionale al complesso internazionale imposto dall’emergenza e dalle sue uscite, dal dopo, obbligando ad una cambiamento che, per chi se ne occupa, attiene appunto alla politica, a cominciare dalla nostra.

Le risposte sono difficili come le domande non soltanto per le complessità storiche che contengono ma per il non meno storico impasse che la nostra democrazia si porta dietro da sempre, col suo sostanziale blocco che, pure, non le ha impedito la capacità di svolte, anche brusche, ora imposte da forze esterne (magistratura e non solo) ora da autonome decisioni. Certo, l’emergenza può assimilarsi al potere, alla potenza distruttrice, che la magistratura d’antan esplicò, con i risultati che ben si sanno.

Il fatto è che la probabile fine del Conte bis con questo tipo di esecutivo dovrebbe – ma non ci illudiamo molto – imporre una riflessione, un ragionamento sulla reale condizione della nostrana politica intesa, da vocabolario, come dottrina, scienza, dotata di attività autonoma voluta dal popolo, col fine di organizzare e amministrare la vita pubblica.

Per tanto tempo, e con la quasi scomparsa o riduzione di movimenti-partiti ispirati alla tradizione liberale, i temi fondamentali del dibattito, insieme agli stessi grandi problemi della nazione, non sono stati le vere emergenze: depauperamento miliardario della sanità pubblica, divario crescente fra Nord e Sud, condizione fallimentare dell’Alitalia, e quella dell’ex Ilva, la fuga di laureati e professionisti ecc. ecc., ma critiche violente alla Ue con minacce di fuoriuscita, lo sbandieramento di sovranismi, le paure, spesso esagerate, per imminenti catastrofi a causa di sbarchi imponenti di immigrati e così via.

Ritenendo la politica esauribile nelle magiche parole di “stabilità-governabilità”, la sua strada maestra è stata deviata nei piccoli ma urlati sentieri del taglio dei vitalizi o della riduzione del numero dei parlamentari con la motivazione che la democrazia costa troppo e intanto i veri, grandi problemi dell’economia e del lavoro senza piani e progetti industriali degni di questo nome, sono rimasti nelle parole, come nella canzone di Mina.

La ricerca del consenso, costi quel che costi, anche per riempire le chiese vuote che lo stesso Papa, e si parva licet, una saggia Giorgia Meloni, hanno bocciato, è un altro virus, ma battuta di gran lunga dal giustizialismo dei grillini in nome di quel tutti in galera che non è solo lo slogan di Alfonso Bonafede, ma l’essenza della loro ideologia cui si aggiunge, per completare il quadro, la volontà della statizzazione sia delle emergenze finanziarie sia del futuro di un’economia, già debole ma ora duramente provata dall’emergenza.

Dopo la quale, come si dice ovunque, nulla sarà come prima. Ma un punto interrogativo è d’obbligo.

 


di Paolo Pillitteri