Ora servono cuore e portafoglio

lunedì 6 aprile 2020


Dell’intervista rilasciata ieri all’Huffington Post da Massimo Cacciari, uno spunto va raccolto perché coglie nel segno: la nostra è una situazione angosciante. Non si può vivere e riflettere serenamente sulla condizione che il Paese sta attraversando se le uniche certezze che ci concede il Coronavirus sono le macerie del dopo, quando la pandemia si sarà placata. A niente serve l’oppio dell’ottimismo un tanto al chilo che il circo mediatico somministra quotidianamente al popolo inerme, nell’illusione che ciò possa bastare ad addolcire l’amaro calice della verità.

Dice bene Cacciari: basta con “le puttanate che raccontano i nani e i ballerini della televisione. Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno”.

Non è soltanto un problema di paure da contagio. Non è solo il modo inaccettabile con il quale persone care, amate, lasciano questa vita. Non è soltanto il senso di spaesamento e di solitudine generato dal distanziamento sociale, reso obbligatorio dallo stato d’eccezione. La paura più profonda e, insieme, più devastante è la perdita di forza reddituale, di solidità patrimoniale, d’interazione sociale. Anche il rapporto con il trascendente vacilla. Nonostante decenni di bacato marxismo, incrociato a un bizzarro pauperismo evangelico promosso ma non praticato dalle gerarchie ecclesiastiche, abbiano insegnato che la proprietà fosse un furto, un veleno e il denaro lo sterco del diavolo, oggi che la scorza dura del conformismo ideologico è saltata viene fuori la vera natura umana che non solo non rinnega l’ancestrale aspirazione al possesso ma in esso si compenetra e si riconosce: l’Uomo è ciò che gli appartiene. E se, in un maledetto giorno, quello stesso essere umano si sentisse deprivato dei suoi beni, s’interrogherebbe su quale altro significato abbia l’esistenza. Ma la risposta che ne trarrebbe dall’osservazione della realtà potrebbe non piacergli. Stati di angoscia diffusi, aggravati dalla percezione negativa di un comportamento della classe politica assolutamente inadeguato alla gravità del momento. Abbiamo per un cinquantennio coltivato un sogno che, alla prova dei fatti, si è dimostrato essere un tragico abbaglio: l’Europa unita. Sono settimane che i leader dell’Unione discutono su quali siano le modalità condivisibili per aiutare i Paesi in maggiore difficoltà a causa del contagio.

Ad oggi, di là dalle molte chiacchiere e promesse annunciate, si è fatto poco o nulla. In settimana è possibile che il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo europei trovi un’intesa al ribasso per dare qualcosa a chi, tra i Paesi Ue, sia messo peggio. Non sarà abbastanza e, soprattutto, sarà gravato da tali condizionalità che, alla fine, saranno gli stessi richiedenti aiuti a rinunciarvi perché il gioco non varrà la candela. Unione europea? Cosa suona di più falso? Unione con chi? Di cosa? E per cosa? Il premier Giuseppe Conte va in televisione a fare la voce grossa, nella speranza che qualcuno gli creda. Che biasimevole messinscena! Lo sanno tutti che Conte parteciperà al Consiglio d’Europa consapevole di non avere alcuna speranza di essere ascoltato e preso sul serio. Si dirà: non è solo, altri Paesi lo appoggeranno che sono messi male come l’Italia. Non facciamoci soverchie illusioni. Una piccola speranza l’avremmo avuta se la Francia fosse stata dalla nostra parte. Ma, come era prevedibile, la solidarietà transalpina è durata il tempo di un battito d’ali di farfalla. Una chiamata a rapporto della Cancelliera Angela Merkel e il soldatino di cartapesta, Emmanuel Macron, si è messo sugli attenti. E gli altri? Stanno conciati talmente male che si accontenteranno di un piatto di minestra riscaldata.

Questa settimana avremo la prova definitiva che l’Europa è solo un’espressione geografica. Nient’altro. Ciò vuol dire che dovremo sbrigarcela da soli. Purtroppo, il Governo demo-penta-renziano non ha la stoffa per farcela. Occorrerebbe che una guida sicura trascinasse l’Italia e gli italiani fuori dal guado. Ma come? Silvio Berlusconi, quando era in auge, a riguardo della condizione economica del Paese era solito citare una pittoresca metafora: “Il convento è povero ma i frati sono ricchi”. Era vero, e lo è tutt’ora. Alla fine del 2018 Bankitalia stimava in 10mila miliardi di euro la ricchezza degli italiani. Un dato importante, purtuttavia macchiato dalla scarsa fiducia dei risparmiatori nei Titoli di Stato, calati al 7 per cento del portafoglio dal 30 per cento dei primi anni Novanta. Comunque la si giri è in tale porzione di ricchezza che risiede la speranza di rialzarci in piedi e ricominciare a camminare. Se crediamo nel nostro Paese, se desideriamo che vi sia un futuro per le prossime generazioni di italiani, è giunto il momento di dimostrarlo concretamente. Ci sono molti modi per essere coraggiosi: fronteggiare un criminale colto nell’atto di borseggiare una vecchietta; arrampicarsi su un albero per recuperare un gattino spaventato; fare volontariato negli ospedali dove si lotta contro il Coronavirus. Ma investire un po’ dei propri risparmi in Titoli di Stato italiani è anch’esso un atto di piccolo eroismo civile. L’importante è che la classe politica che ci governa ce lo consenta e non crei intralci al grande cuore degli italiani.

Giulio Tremonti, qualche giorno fa, ha presentato la sua ricetta su “Formiche.net”: bisogna tornare a Quintino Sella. Figura eminente della Destra storica, ministro delle Finanze nei primi due Governi post-unitari, Rattazzi e La Marmora, Quintino Sella è passato alla Storia per essere stato l’artefice, nel 1876 con il Governo Minghetti, del pareggio di bilancio dello Stato. Tuttavia, Tremonti lo evoca per un’altra iniziativa di grande lungimiranza: l’introduzione, per l’acquisto dei Titoli del Debito pubblico, della formula: “Esenti da ogni imposta presente e futura”. Formula rimasta in vigore fino al 1986, quando venne cancellata. L’idea di Tremonti è semplice e totalmente condivisibile: i denari per ripartire li si chieda agli italiani sulla base di una logica fiduciaria proiettata sul lungo periodo. Un basso rendimento in cambio di una totale detassazione è un patto ragionevole da offrire. I politici si riempiono la bocca di frasi aD effetto delle quali neppure ne conoscono per intero il significato. Tutti a parlare della necessità di un “New Deal” o di un “Piano Marshall”. Volete una cosa seria? Eccola pronta. Nessuna patrimoniale, nessun prelievo forzoso dalle tasche dei contribuenti, ma uno sforzo unitario, consapevole, volontario. Una sorta di chiamata alle armi per rispondere a una legittima pretesa di un popolo di farsi artefice del proprio destino. Sarebbe come se stessimo tornando a donare l’oro alla Patria. Qualcuno si straccerà le vesti perché sarà nuovo debito pubblico. Tecnicamente è così, ma nella sostanza sarà come l’aumento di capitale per una società per azioni. Demonio di un Giambattista Vico! Siamo di nuovo ai corsi e ricorsi storici. Fu Massimo D’Azeglio a pronunciare, almeno a lui è attribuita, la famosa sentenza: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. In più di un secolo e mezzo si è riusciti a farli nel migliore dei modi. Sebbene non perfetti, gli italiani ci sono. Ma adesso la Storia, come in un immemore gioco dell’oca, ci riporta indietro. “Fatti gli italiani, bisogna rifare l’Italia”.


di Cristofaro Sola