Chi si lamenta e chi lavora

mercoledì 25 marzo 2020


Basta por mente alle suggestive descrizioni che Tucidide aveva saputo offrire della epidemia di peste che devastò Atene, per rammentare come la reazione ad ogni grave epidemia sia la più varia, almeno per quanti sono i tipi umani dal punto di vista psicologico e spirituale. Non meraviglia perciò che in Italia in questi giorni di particolare difficoltà sia possibile registrare molti atteggiamenti personali diversificati, dei quali forse è utile evidenziare i due poli contrapposti che, appunto, per la loro estremizzazione si lumeggiano a vicenda. Da un lato, si ritrovano alcuni, soprattutto riuniti in gruppo o in categorie, i quali si affidano ad una sorta di portavoce, incaricato di solito di intonare una geremiade pubblica, spesso televisiva o riversata sui giornali, denunciando che il gruppo o la categoria di appartenenza sarebbero stati lasciati soli di fronte alla crisi epidemica, abbandonati senza alcuna protezione e indicazione e che perciò costoro desiderano dismettere qualsivoglia responsabilità alla quale venissero eventualmente chiamati per un malfunzionamento del sistema sanitario o organizzativo.

Costoro, per fortuna non numerosissimi, di solito, impegnati a lamentarsi, hanno poco tempo per lavorare, e così lavorano poco o nulla, restando tuttavia normalmente pagati per quello che non fanno, perché, pur tenuti, preferiscono darsi ad altro tipo di attività: appunto la lamentazione pubblica o privata. Tutte le categorie sono qui rappresentate: medici, infermieri, avvocati, commercialisti, giornalisti, farmacisti, imprenditori, nessuna esclusa. Dall’altro lato, troviamo invece persone che, senza la preoccupazione di riunirsi in gruppo o in categorie, non hanno tempo di lamentarsi, perché, consapevoli dell’estrema serietà della situazione e dei pericoli che essa comporta per tutti e per ciascuno, sono impegnati, ciascuno nel proprio ambito, a lavorare dando il meglio di sé. Costoro, per fortuna molto più numerosi dei primi, non si lamentano non già perché non ne avrebbero motivo, ma perché sanno e capiscono che quello attuale non è e non può essere il tempo della lamentazione e della rivendicazione, ma soltanto il tempo della laboriosità, della fatica, dell’impegno umano e sociale.

Anche qui, sono rappresentate tutte le categorie, senza eccezione alcuna. Si badi. Quelli che oggi lavorano tacendo senza lamentarsi e facendo – come si dice – di necessità virtù, appartengono perciò alle medesime categorie di quelli che, lavorando poco o nulla, passano il tempo a lamentarsi e a rivendicare: non sono certo alieni dotati di superpoteri. Eppure tacciono e, faticosamente incontrando le stesse difficoltà di coloro che invece si lamentano senza lavorare, tirano avanti la carretta ogni giorno che Dio manda in terra. Così, per esempio, si può cercare di comprendere, utilizzando questi modelli di riferimento, come se da un lato ben 300 sanitari di Crotone, allegando patologie varie, ma stranamente concomitanti, se ne stanno a casa, invece di stare in trincea dove la loro vocazione professionale vorrebbe che stessero, dall’altro lato, sono oltre seimila i medici italiani, nella specie meridionali, che rispondono alla chiamata speciale di Lombardia e Veneto per sostituire i colleghi letteralmente caduti sul posto di lavoro (o perché contagiati dal virus o perché addirittura deceduti), rischiando in prima persona di cadere a loro volta.

Che forse i secondi non potrebbero, volendo, far come i primi? Certo che potrebbero, e agevolmente. Ma non lo fanno, senza per questo sentirsi eroi. E non lo fanno perché si vergognerebbero di loro medesimi e non potrebbero guardarsi allo specchio la mattina prima di uscire. Ecco allora: forse, è tutta questione di pudore e della vergogna che nascerebbe da una offesa al pudore. Quei 300 sanitari forse hanno perso il senso del pudore. Tutti gli altri, per fortuna, no.  

 


di Vincenzo Vitale