Liberi marciatori in liberi giardinetti

lunedì 23 marzo 2020


La polemica, innestata su ipotetiche libertà conculcate per il fatto che sia stato vietato dalle pubbliche autorità di andare nei parchi pubblici a fare jogging, ha del surreale. Forse a qualcuno è sfuggito che il Paese si trovi non in un dramma ma in una tragedia di smisurate dimensioni a causa del diffondersi del Coronavirus. Qui si muore in troppi e malamente. Ieri l’altro se ne sono andati in 797. L’ultimo bollettino della Protezione civile comunica che nella giornata di ieri li hanno seguiti in 651. Da quando è cominciata sono stati in 5.476 ad affrontare lo stesso calvario verso l’aldilà. Siamo al collasso delle illusioni.

E chi se lo sarebbe immaginato che il temuto “Crepuscolo degli dei” si palesasse all’alba del Terzo millennio nella forme di un nemico infinitamente piccolo? Il senso d’impotenza verso il virus restituisce l’esatta misura della fragilità della condizione umana: si può essere stati grandi o semplicemente se stessi e nonostante il progresso scientifico e tecnologico abbia proiettato sulla coscienza dell’uomo l’immagine distorta e fallace dell’immortalità possibile, è bastato che un microscopico organismo si attivasse per scoprire che anche le civiltà possono disintegrarsi come castelli di sabbia sfiorati dall’onda.

Ora, i nostalgici della corsetta al parco chiedono certezze scientifiche che giustifichino le misure restrittive della libertà di circolazione adottate dal Governo. Ma quali prove cercate? Contate i morti e ponetevi qualche domanda. La scienza al momento non ha rimedi contro il male se non quello di evitare che si diffonda. Lo chiamano distanziamento sociale. Sembra una roba tecnica ma è la pia speranza di chi non sa più a quali santi votarsi. Non c’è nella comunità sanitaria un solo esperto che dica una cosa diversa. L’appello accomuna tutti: state a casa. Qualcuno si duole sostenendo che in fondo il maratoneta solitario non farebbe male a nessuno, con la sua corsetta mattutina. Sarà, ma se quell’innocuo podista dovesse aver contratto il virus senza manifestarne i sintomi, la sua corsa sarebbe suo malgrado lo schizzo dell’untore sulla tela dell’italico menefreghismo. Si corre in solitario? Ma se in uno spazio pubblico delimitato si presentano in mille, diecimila corridori non si è poi così solitari. Chi fa jogging suda e ha una traspirazione superiore al normale, con le mani può toccarsi la bocca e il naso, stropicciarsi gli occhi, asciugarsi la fronte. E con quelle stesse mani, guantate o no non fa differenza, poggiarsi a una balaustra, a una staccionata, al sedile di una panchina, dove fermarsi a riprendere fiato. Cosa accadrebbe se, dopo di lui, altre persone ripetessero il medesimo gesto? Se in dieci, cento poggiassero le mani nude negli stessi punti visitati da altri corridori? Non è detto che accada. Ma non è certificabile il contrario. Perciò, nel dubbio, meglio sospendere precauzionalmente l’esercizio fisico all’aria aperta nella consapevolezza che esso possa costare assai caro a qualcun altro.

Si parla di libertà violate. D’accordo. Allora si affronti una volta per tutte il nodo vero che neanche il tempo storico della grandi democrazie liberali è stato in grado di sciogliere definitivamente: fin dove si può spingere la libertà individuale? Rispondere che la libertà del singolo si ferma dove comincia quella degli altri è un paralogismo. Perché non esistono in società complesse azioni individuali che non producano un qualche effetto, anche il più impercettibile, nella sfera esistenziale del prossimo. La strada più sicura per rispondere concretamente alla domanda è quella tracciata da Isaiah Berlin. Se per libertà non s’intende l’azione in sé ma la possibilità dell’azione; se, per stare al caso, il discrimine che definisce il concetto di libertà non è la corsa ma la decisione individuale e insindacabile di correre, bisogna pregiudizialmente chiedersi, come suggerisce Berlin: “Chi è il padrone e in quali ambiti io sono il padrone?”. L’aspirazione all’autodeterminazione dei comportamenti non conculcabili è il fondamento dell’approccio liberale all’esistenza.

Tuttavia, a temperare l’idea “negativa” di libertà, il laissez-faire eretto a sistema nelle dinamiche sociali, interviene un’idea “alta”, “positiva” di libertà, che appartiene al pensiero liberale, e che s’identifica non negli istinti irrazionali del singolo ma “nella realizzazione dell’Io reale... nelle istituzioni, nelle tradizioni, nelle forme di vita più vaste della semplice esistenza empirica, spazio-temporale dell’individuo finito”.

I fautori del jogging si appellano al principio della libertà negativa di essere assoluti padroni di se stessi, ignorando però la circostanza, già evidenziata da Benjamin Constant, che in assenza della libertà “positiva”, del sottomettersi pacificamente alla cogenza del pactum societatis, anche la libertà “negativa” verrebbe annientata senza troppi riguardi. Tuttavia, più che dall’effetto coercitivo delle leggi, la scaturigine della spontanea adesione del singolo al progetto “organico” comunitario è il senso morale, che appartiene alla potestà individuale dell’autodeterminarsi nei comportamenti socialmente rilevanti, fonte di un’etica della responsabilità. Per intenderci, non si va a correre al parco prima ancora che lo prescriva una norma giuridica, perché il senso di comunità al quale il singolo appartiene è ragione in sé esaustiva per mettere da parte il desiderio di autodeterminazione e agire in spirito solidale per il bene comune. Non c’è alcun golpe alle porte di casa nostra. Non siamo il Cile di Pinochet, né la Grecia dei colonnelli. Se rischiamo la tirannide è per ragioni ben diverse e più serie della corsa al parco. E, nel caso, dovremmo guardare con maggiore sospetto dalle parti di Bruxelles, Francoforte e dintorni piuttosto che tra gli scalcinati palazzi della politica romana. Siamo una comunità piagata dalla sofferenza. Ci siamo finiti tutti nei guai e insieme ne dobbiamo uscire. Seppure con qualche sacrificio fuori programma.

Il Governo, preda d’insanabili contraddizioni, ancora una volta si è mostrato inadeguato all’ora drammatica che il Paese sta vivendo. I governatori delle Regioni, invece, stanno dando una prova di tenuta che rincuora. L’importante è che poi alla fine, sebbene tra mille incertezze, le decisioni si prendano e siano le più efficaci. La circolazione delle persone andava drasticamente limitata nell’interesse generale che non può confliggere con l’istanza libertaria a non vedere compressi i diritti fondamentali della persona. Nel ricordare a tutti i liberali in ascolto la poesia di John Donne “Nessun uomo è un’isola”, da cui un verso fu scelto da Ernest Hemingway a titolo di uno dei suoi più celebri romanzi, “Per chi suona la campana”, viene di pensare che neppure un giardino pubblico sia un’isola. Mai come ora, in ogni sperduta ansa di questo vasto gorgo non esistono Rari nantes, ma c’è l’Italia tutta a lottare per non essere trascinata a fondo.


di Cristofaro Sola