Milano brucia, Roma discute

Decedute 1809 persone per il Coronavirus, a ieri. Iniziano ad essere troppe per la coscienza di un Paese. Di fronte a un dramma di simili proporzioni le istituzioni pubbliche avrebbero dovuto ritrovarsi a fare fronte comune. Invece, si continua a procedere in ordine sparso. Lo dimostra l’ultima polemica innescatasi tra il Governatore della Lombardia, Attilio Fontana e i suoi stretti collaboratori da una parte, la Protezione civile e il Governo dall’altra. La sensazione è che sia in atto una lotta tra Capitali, Milano e Roma, rispettivamente poli attrattori di due modi diversi di essere Italia. Non è un bello spettacolo ma la divisione profonda che ha covato silente per anni nel midollo spinale del Paese fino a manifestarsi in forme sconcertanti. C’è Milano, cuore pulsante della Lombardia, che è l’immagine di un Nord pragmatico, produttivo, veloce nelle decisioni e infaticabile nel lavoro. Nella sede di Regione Lombardia, trasformata in Alto Comando Strategico nella guerra al Coronavirus, non si filosofeggia: si opera. La diffusione del contagio nella regione è costata più vittime che altrove. Le forze sanitarie schierate sul campo sono allo stremo, ma resistono. Il problema ora è l’insufficienza di posti letto di terapia intensiva. Quelli che ci sono non bastano più. Gli amministratori lanciano grida d’allarme ma, allo stesso tempo, cercano soluzioni. E un’idea per salvare la regione dal game over sanitario è stata trovata: trasformare due padiglioni della Fiera di Milano in ospedale temporaneo con 500 posti letto di terapia intensiva da riservare ai malati gravi da Covid-19. Poche ore per acquisire tutte le disponibilità e si sarebbe potuto procedere con l’allestimento. Se non fosse che da Roma è arrivato lo stop della Protezione civile: l’ospedale in Fiera non s’ha da fare. Cosa è successo?

Dopo una fiammata d’entusiasmo iniziale che aveva contagiato anche i burocrati della Capitale, la Protezione civile ha fatto marcia indietro. Non sarebbe possibile reperire nell’immediato il materiale richiesto da Milano per la messa a regime della struttura d’emergenza. Senza ventilatori e altri presidi sanitari per Roma l’operazione corsara (un ospedale in dieci giorni) in stile Wuhan salta. Per Milano, si va avanti. Feeling interrotto? Eppure, solo qualche giorno prima si respirava aria da “whatever it takes” alla Mario Draghi. E adesso ci si ferma? I vertici lombardi non ci stanno e, già irritati dall’invio da Roma di mascherine che somigliano a fogli di carta igienica, promettono tre cose: 1) l’allestimento della mega struttura in Fiera a Milano procederà comunque; 2) le attrezzature che Roma non riesce a reperire ce le procuriamo da soli; 3) A coordinare i lavori chiamiamo il dominus assoluto di tutte le emergenze nazionali, Guido Bertolaso, già snobbato dal Governo Conte-bis per l’incarico di commissario straordinario all’emergenza da Coronavirus.

Il clima adesso è quello da “Schiaffo d’Anagni”: Roma non vuole Bertolaso? Allora lo prendiamo noi lombardi e ne facciamo il nostro campione d’efficienza, questo il ragionamento del Governatore Fontana. Poco ci manca che si arrivi a dichiarare lo scisma ambrosiano. La polemica sarebbe perfino stuzzicante se non fosse per il particolare che sono in gioco centinaia se non migliaia di vite umane. Ragion per cui si raccomanda a tutti calma e gesso. Roma è noto che sia il porto delle nebbie per antonomasia, nei corridoi delle sue burocrazie ministeriali un cittadino non particolarmente corazzato potrebbe perdere il senno. Verosimilmente, il problema sorto con Milano è di natura tecnico-procedurale. Se è così il Governo centrale mostri sufficiente duttilità nel dare il via libera alla Giunta regionale lombarda per provare in proprio a saltare l’ostacolo. Lo faccia con spirito solidaristico e partecipativo nella convinzione che un Paese si tiene insieme, come un edificio, se nessuno prova a sottrarre mattoni alla costruzione.

Di più. La buona riuscita dell’operazione “ospedale in dieci giorni” in Lombardia costituirebbe una best practice da esportare in altre regioni. In particolare in quelle meridionali dove il deficit strutturale della sanità locale non consente di fare muro all’abbattersi sulla popolazione di un evento pandemico di consistenti proporzioni. Il guaio, però, è che il Governo è composto di molti elementi, alcuni dei quali anche in queste fasi drammatiche non smettono di pestare acqua nel mortaio nell’illusione di ricavarne un qualche vantaggio politico. È il caso del ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia. Era davvero necessario che additasse come avvoltoi e sciacalli tutti coloro che hanno osato criticare l’operato dei vertici governativi e della Protezione civile? Va bene la cadrega, ma essere più realisti del re rende ridicoli. Chi sta al vertice istituzionale di errori ne sta compiendo a bizzeffe. Di chi la colpa? Di chi renda nota l’inefficienza riscontrata o di chi sia venuto meno ai compiti assegnatigli? Come sempre per la politica italiana il problema è il dito e non la luna. Se asseriamo che la ministra alle Infrastrutture e ai Trasporti, Paola De Micheli, non sia all’altezza del compito e andrebbe sostituita, cosa siamo: avvoltoi o sciacalli? O nessuna delle due cose? Solo ieri l’altro con inspiegabile ritardo la ministra ha disposto lo stop dei treni notturni a lunga percorrenza dal Nord al Sud del Paese. Eppure c’era stata la mezza apocalisse della settimana precedente che avrebbe consigliato provvedimenti restrittivi della circolazione delle persone in tempi immediati. Sono occorse le vibrate proteste bipartisan di tutti i Governatori del Sud terrorizzati all’idea che l’ennesima ondata di cittadini in fuga dalle regioni del Nord raggiungesse il Meridione, perché la ministra De Micheli intervenisse. Giorni se non settimane di ritardo in una situazione in cui la crisi sanitaria viaggia a ritmi orari inchiodano il decisore politico alle sue responsabilità. Che si fa? Ci si mette tutti il bavaglio per non disturbare il manovratore che sbaglia? E tutto in nome di un malinteso senso di unità nazionale? Si è mai visto un medico che per eccesso di compassione nasconda la diagnosi al paziente? A questo mondo non serve il buonismo ipocrita del “tutti insieme appassionatamente”.

Non bisogna smettere di stare addosso ai governanti per evitare che il senso d’impunità li porti a sbagliare sopra la soglia della sostenibilità dei loro errori. Siamo per il tango, non per il minuetto. C’è bisogno di ordine, di gioco di squadra ma anche di diritto di critica se non vogliamo seppellire la democrazia e la libertà insieme ai nostri morti.

Aggiornato il 16 marzo 2020 alle ore 12:37