Tu quoque, Giuseppe Conte!

Il vile attacco del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte alle Regioni che stanno cercando di fronteggiare la diffusione dell’epidemia da Coronavirus e l’infame tentativo di scaricare la responsabilità del contagio sull’ospedale di Codogno nel Lodigiano indiziato, sebbene non esplicitamente nominato, di responsabilità diretta nella gestione “non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi”, ci ha sorpresi.

Per quanto la politica ci abbia abituato al peggio, la scorrettezza mostrata dal Capo del Governo nei confronti di chi, in prima linea, sta combattendo il virus anche a prezzo di grandi sacrifici personali, è sembrata un’azione disdicevole, decisamente finita oltre il consentito. I rappresentanti di Regione Lombardia, il presidente Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera, hanno reagito nell’immediatezza della dichiarazione con sorprendente durezza, denunciando l’irricevibilità dell’accusa rivoltagli da Conte e rilanciando, a loro volta, una controaccusa di grave incapacità dell’Esecutivo a fornire per tempo le linee guida e gli strumenti idonei a contenere il contagio. Benché una polemica non sia mai salutare quando scoppi in piena emergenza operativa, come dare torto ai lombardi destinatari incolpevoli di un attacco proditorio? Ci siamo chiesti perché Conte fosse arrivato a tanto. La prima spiegazione, la più immediata, conduceva alla lettura “psicologica”, individuando la causa della défaillance nella condizione di forte stress in cui versa il premier da qualche giorno. A Conte è cascata addosso una montagna, è umano che possa aver perso il controllo dei nervi per qualche momento. È sostenibile tale giustificazione? No, perché è della guida di una nazione che parliamo, non di un quivis de populo al quale è permessa una fragilità psichica. Abbiamo pensato allora che si potesse essere trattato di una manifestazione d’impotenza verso una macchina di gestione dell’emergenza che, perfettamente funzionante nel Lombardo-Veneto, a livello centrale ha mostrato tutte le sue carenze.

E in un contesto politico di continuo scontro con le opposizioni, in particolare con quella intransigente di Matteo Salvini, il fatto che le regioni distintesi per grande efficienza organizzativa fossero quelle governate da esponenti della Lega potrebbe essere la causa scatenante la rabbia di un politico costretto a prendere atto della sua inattitudine a guidare il Paese. Anche la minaccia di avocare a sé i pieni poteri sull’emergenza virus, mettendo fuorigioco i governatori regionali, paventata da Conte, deporrebbe in favore del sospetto di un consumato dramma della gelosia. Avremmo potuto contentarci di questa seconda ricostruzione eziologica se non avessimo ascoltato la conferenza stampa del Capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, delle ore 12 di ieri. In realtà, più che le cose dette da Borrelli, il quale peraltro si è limitato a snocciolare le cifre del bollettino giornaliero di guerra al Coronavirus, sono apparse illuminanti la presenza e le parole del professore Walter Ricciardi, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, da ieri l’altro nominato dal ministro della Salute, Roberto Speranza, consigliere per le relazioni dell'Italia con gli organismi sanitari internazionali per il contrasto al Covid-19. Il luminare della Medicina di Sanità Pubblica, nel recente passato molto critico verso le iniziative assunte dal Governo per prevenire la diffusione del virus, ha dimostrato di avere le idee chiarissime sul da farsi. Ha spiegato ai giornalisti del perché si sia arrivati ad avere l’esplosione dei casi in Italia. Lo ha fatto con grande pragmatismo, tenendosi lontano dalle polemiche sterili che negli ultimi giorni hanno terremotato non soltanto la politica ma anche il mondo scientifico nostrano. La sola presenza in campo di Ricciardi ha reso evidente il motivo della crisi di nervi del premier della sera precedente. Formalmente l’uomo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è un consulente, ma nella sostanza è stato chiamato a commissariare la Protezione civile sulla questione del Coronavirus nonché lo stesso Esecutivo.

Intendiamoci, Conte continuerà a tenere incontri e a rilasciare dichiarazioni ai media, ma di fatto si atterrà a ciò che Ricciardi gli suggerirà di dire. L’uomo dell’Oms ha tolto il bastone del comando dalle mani del premier e della sua squadra di governo per cui è legittimo attendersi un deciso cambio di rotta nella politica sanitaria nazionale sullo specifico caso del virus maledetto. Dovremmo dolerci in presenza di un così grave atto di espropriazione del potere della decisione ai danni della categoria del politico. Invece, almeno in questo caso, siamo lieti di fare un’eccezione. Neanche per un istante abbiamo pensato che l’odierna compagine governativa fosse in grado di fronteggiare una crisi destinata a mietere vittime tra i soggetti economici del Paese ben più di quanto ve ne saranno tra i connazionali in carne ed ossa. Meglio allora che sia un tecnico competente a tenere il timone.

Di una cosa possiamo stare sicuri: con Walter Ricciardi non sarà l’ideologia a dettare la linea di condotta alle amministrazioni regionali asserragliate sulla prima linea del fronte di contrasto al contagio, ma saranno le evidenze scientifiche a determinare la giusta rotta da seguire. Bisognava aspettarselo che Conte, messo con le spalle al muro e costretto a cedere il passo ad altri, sbroccasse. Per comprendere la reazione di ieri l’altro dobbiamo fare ricorso al gergo calcistico. Quelle dichiarazioni scorrette e bugiarde sono state il classico fallo di frustrazione, tipico del calciatore che, avendo perso il controllo della palla, colpisce alle spalle l’avversario per impedirgli di proseguire l’azione. Ma, stando alla metafora calcistica, tal genere di falli non appartiene al repertorio dei grandi campioni, piuttosto a quello delle mezzecartucce che non riuscendo a tenere il passo dei fuoriclasse compiono atti scorretti. Purtroppo, però, la politica non è il calcio. Sul campo in prato vi sarebbe stato un arbitro in grado di sanzionare il fallo con un severo cartellino rosso. Sul terreno della politica italiana l’arbitro ci sarebbe, ma gioca con la squadra dei perdenti. Bisognerà attendere il momento in cui il popolo degli spalti potrà dire la sua per mandare negli spogliatoi il giocatore sleale e vigliacco. E farcelo restare per molti anni.

Aggiornato il 27 febbraio 2020 alle ore 10:26