L’ascesa di Salvini: in quale direzione?

La supermedia dei sondaggi sulle intenzioni di voto, pubblicata da Youtrend la scorsa settimana, conferma la Lega primo partito con una percentuale che si consolida intorno al 30 per cento. Se si votasse domani, un elettore su tre vorrebbe Matteo Salvini premier.

Evidentemente, gli attacchi di cui è bersaglio quotidiano gli giovano nei consensi. Gli italiani restano un popolo di cuore. E non sempre corrono in aiuto del vincitore, come ironizzava Ennio Flaiano. Sovente, i nostri connazionali si appassionano nel difendere chi per l’immaginario collettivo è il “calimero” della pubblicità: più appare brutto, sporco e nero e più lo si ama. La chiave sono i soprusi verbali dei nemici politici, e non solo, di cui il “Capitano” è fatto oggetto. Salvini somiglia un po’ al Silvio Berlusconi della persecuzione giudiziaria. Amato da tanti per il solo fatto di essere vittima di un sistema di potere che gli si scagliava contro con inaudita violenza. È una sindrome comune quella che spinge istintivamente ad aiutare il perseguitato, a prescindere dalle motivazioni della sua persecuzione. Tuttavia, tanta generosità che si trasfonde nei sondaggi non è detto che semplifichi la vita ai pupilli della brava gente. Nel caso di Salvini, il successo di consensi non gli risolve il dilemma che ha davanti. Quando si diventa popolari è perché, riguardo all’offerta politica, si è fatta pesca a strascico. Cioè, si è parlato ai potenziali bacini elettorali con linguaggi differenziati, secondo l’opportunità del momento. Si dice a ciascuno ciò che vuole sentirsi dire. È prassi normale che quando si vada a caccia di consensi si sia prodighi nel prendere impegni. Il problema, però, si manifesta quando, vinte le elezioni, si deve governare. Allora ci si accorge che non tutte le promesse possono essere mantenute e che a qualcuno si dovrà pur dire: scusa, ma non posso accontentarti. Fin quando si tratta di questioni circosritte, il politico capace riesce a colmare con la presentazione di un bilancio compensativo il deficit di credibilità provocato dal venir meno della parola data. Un esempio: “Cari liguri, non riusciamo a costruire per tempo la variante stradale della “Gronda” ma completiamo il Terzo valico”. L’elettore ligure potrebbe essere portato ad assolvere il politico riconoscendogli l’attenuante della buona volontà: non ha fatto quello che mi aveva promesso però si è impegnato a migliorarmi la vita in altro modo”. È come a scuola: l’allievo è promosso pur non avendo raggiunto gli obiettivi fissati dall’insegnante, ma mostrando buona volontà nell’impegnarsi.

Ma ci sono questioni dirimenti per il futuro del Paese che non possono essere compensate. È il caso dei rapporti con l’Unione europea e la moneta unica. Che fa la Lega di governo: si resta nell’Euro e nell’Unione o si esce dall’una o da entrambe? Sul punto non è che il messaggio di Salvini sia chiarissimo. Agli industriali del Nord che fanno export e sono legati alla locomotiva produttiva tedesca dice: state tranquilli che con noi l’Italia è saldamente in Europa, in tasca ci teniamo l’Euro e gli euroscettici alla Alberto Bagnai e Claudio Borghi li mandiamo a giocare in autostrada. Poi, però, all’assemblea con i pescatori del Comacchio, stanchi di farsi misurare dagli euroburocrati il diametro delle vongole pescate, il “Capitano” fa la promessa di mandare a ramengo il caravanserraglio di Bruxelles non appena messo piede a Palazzo Chigi.

Qual è il vero Salvini? È il sodale di Marine Le Pen o è lo sponsor del claim coniato dal suo braccio destro, Giancarlo Giorgetti: “Mario Draghi forever”? Europeismo o sovranismo, questo è il problema. Il nodo gordiano che attende l’abile Matteo non si risolve con un fendente secco, resta complicato reciderlo. Salvini è consapevole dell’istanza di profondo cambiamento che sale dalla società civile e che cerca sponda nella rappresentanza partitica. È la cifra che connota l’estrema mobilità dei flussi elettorali nell’ultimo quarto di secolo. Ad eccezione delle parentesi brevi di Romano Prodi, tutti i leader che hanno scatenato l’entusiasmo popolare hanno ottenuto consenso sulla scorta di una promessa di ribaltamento dello status quo. A cominciare da Silvio Berlusconi, passando per Matteo Renzi, fino a Beppe Grillo. Il comune denominatore tra costoro è che, sebbene per differenti ragioni, hanno tutti in qualche modo deluso le aspettative di rivoluzionamento dei rapporti di forza tra le comunità e le élite generate dalla globalizzazione. Ciò dimostra che quel popolo in cerca di un timoniere coraggioso che lo conduca a sfidare lo status quo è ancora in cammino e si predispone a puntare le sue residue speranze di riscatto sulla Lega.

Il problema è dunque la coerenza: essere sovranisti domani al governo, come lo si è oggi all’opposizione. Tuttavia, non si può negare che una politica di contrapposizione frontale ai poteri forti possa non piacere a quegli elettori, soprattutto del Nord, leghisti della prima ora ai tempi di Umberto Bossi, sensibili alle oscillazioni dello spread e alla volubilità dei mercati finanziari, che potrebbero non riconoscersi nella crociata sovranista di Matteo Salvini. La contraddizione potrebbe provocare uno stallo nell’azione di governo targata destra plurale. E la soluzione? Non è semplice. Perché al leader leghista si chiede uno scatto qualitativo nella ricerca di una sintesi vincente, in passato riuscito a pochi. Si tratta di scegliere se rimanere bravi tattici o trasformarsi in grandi strateghi. È questione di diottrie per misurare quanto si riesca a guardare lontano. In casi del genere la storia aiuta.

In un analogo dilemma sul futuro di un’ideologia in declino qual era quella comunista, vi si trovò Enrico Berlinguer alla metà degli Anni Settanta. L’involuzione autocratica dell’Unione Sovietica spingeva il maggiore Partito comunista dell’Occidente a prenderne le distanze. Ma, al tempo stesso, il Pci non poteva finire acriticamente nelle braccia della socialdemocrazia europea, cancellando una storia novecentesca fatta di dure contrapposizioni al revisionismo socialista e di lotta per l’egemonia del marxismo-leninismo. Piuttosto che rischiare l’estinzione nell’incapacità di prendere una strada delle due, Berlinguer riuscì ad aprirsi una terza via. Chiamati a raccolta i capi del comunismo francese e spagnolo, Georges Marchais e Santiago Carrillo, diede vita all’Eurocomunismo, che si prefiggeva il raggiungimento degli scopi del socialismo ma perseguiti all’interno e non contro le società d’impianto liberale, strutturate nelle forme statuali della democrazia parlamentare. Il progetto non andò lontano perché anche i partiti satelliti d’occidente vennero risucchiati dalla caduta del comunismo in Unione Sovietica a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, ma servì allo scopo di disancorare il Pci dalla ideologia delle origini per portarlo all’approdo sulla sponda riformista del socialismo europeo senza subire eccessivi traumi nel consenso. Oggi a Salvini occorre individuare una “Terza via” che gli consenta di tenere uniti i suoi elettorati salvando la capra del sovranismo e i cavoli dell’europeismo. Stare dalla parte dei vinti della globalizzazione senza dover necessariamente assaltare il “Palazzo d’Inverno” delle élite tecnocratiche e finanziarie insediate a Bruxelles.

Per stare a William Shakespeare, per Salvini si tratterà di scegliere se vestire i panni del condottiero che, novello Enrico V, infiamma i cuori dei combattenti prima della battaglia nel giorno dei Santi Crispino e Crispiano o il frustrato Amleto che rimugina sulla caducità dell’umana condizione al cospetto del teschio di Yorick, il buffone di corte. Salvini scelga per tempo chi essere, perché sarebbe assai sgradevole assistere al monologo che fu di Marco Antonio nel “Giulio Cesare”, recitato da un non troppo affranto Giancarlo Giorgetti davanti al cadavere politico del suo “Capitano”.

Aggiornato il 20 febbraio 2020 alle ore 10:04