Veltroni in “collina”, Toti nel sottopasso e la logica in vacanza

Cosa accomuna Giovanni Toti, governatore della Liguria, a Walter Veltroni, ex segretario del Partito Democratico, ex sindaco di Roma, ex comunista, ex direttore de L’Unità, ex ministro dei Beni culturali e vice-premier del Governo Prodi (1996-1998)?

Non è l’incipit di una barzelletta. E non è la cronaca della giornata politica. Se invece dicessimo che i due rappresentano la conferma del principio dell’inderivabilità del “Dover essere” dall’“Essere”, memorabilmente enunciato dal filosofo scozzese David Hume nel Terzo libro del “Treatise of Human Nature”, ci prenderebbero per matti. Eppure, qualcosa c’è che pone due accadimenti apparentemente lontani su un piano di consequenzialità niente affatto insignificante.

I fatti. Walter Veltroni pubblica su “Il Corriere della Sera” un lungo articolo sulla necessità di archiviare gli Anni di piombo, che lui definisce opportunamente “Anni balordi e bastardi”. La richiesta di una pacificazione della memoria parte dall’equanime condanna della violenza armata, di destra e di sinistra, che segnò il periodo più buio della storia repubblicana. L’articolato, coraggioso ragionamento ruota intorno alla storia di Sergio Ramelli, un giovanissimo militante del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano (Msi), morto a Milano il 29 aprile 1975, dopo lunga agonia, a causa di un pestaggio compiuto da sicari di “Avanguardia Operaia”, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare. Veltroni, da navigato romanziere, descrive con levità la figura del giovane barbaramente trucidato da una violenza che appartenne alla sinistra come alla destra, pur restituendo integro il pathos di una storia fatta di silenzi, di omertà, di conformismo, di strategia della tensione e di luoghi sbagliati dove pretendere di sviluppare un pensiero autonomo. Prima che le chiavi inglesi gli fracassassero il cranio, Ramelli cadde sotto i colpi dell’ottusità di un momento storico che aveva smarrito il proprio orizzonte di senso. Sergio fu isolato all’interno della sua scuola che, sfortunatamente per lui, era una roccaforte della sinistra rivoluzionaria. Subì un processo sommario da un improvvisato tribunale del popolo, composto dai suoi stessi compagni d’istituto, per il contenuto di un tema in classe in cui aveva parlato dell’impressione destatagli dal primo assassinio compiuto dalle Brigate Rosse a Padova nel 1974 “in cui dei terroristi erano entrati in una sede del Msi e avevano ucciso a freddo Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola”. Il compito, inspiegabilmente, fu tolto dalle mani del professore che lo aveva in consegna per farne corpo del reato davanti al tribunale del popolo studentesco. Sergio Ramelli, prima di morire, fu sottoposto dai suoi coetanei a un calvario di minacce e di violenze. Continuate contro la famiglia anche dopo il suo assassinio. Non si perdonava alla vittima di pensarla diversamente in una società che non era affatto libera come scritto nella Carta costituzionale. Sergio fu immolato sull’altare della lotta di classe, dell’assalto alla destra colpevole di dare asilo ai “portatori di interessi politici ed economici di una classe contro la quale avevamo molto da ridire per il suo discorso antipopolare”. È la risposta degli imputati ai giudici del processo per la morte di Ramelli e che Veltroni riporta nella sua lucida narrazione dei fatti.

Ma il giovane missino trucidato è solo uno di una lunghissima lista di cadaveri di entrambe la parti del campo di cui fu disseminata una stagione della storia d’Italia che non aveva fatto i conti fino in fondo con la guerra civile del 1943-1945. Su quella tragedia irrorata dal sangue dei vinti non ancora del tutto coagulato nella coscienza di molti italiani, cala il colpo d’ala di un brillante Veltroni. Non un’ipocrita riconciliazione postuma dei protagonisti degli Anni di piombo, ma la riscrittura dell’“Antologia di Spoon River”. Veltroni evoca la pacificazione della memoria nell’immagine ideale di un cimitero in collina dove seppellire per sempre tutti i morti di quella stagione, senza distinzione di bandiera, accomunati dal fatto incontrovertibile che a loro fu negato un futuro. Ramelli, come Valerio Verbano, i fratelli Mattei e tanti altri, rossi e neri, compagni e camerati, caduti su un campo di battaglia che nessuno riconoscerà, sul quale nessuna stele commemorativa verrà apposta. La ricetta di Veltroni, il padre nobile del buonismo nostrano, è suggestiva e per onestà intellettuale ammirevole. Come non condividerla? Come non auspicarne la rapida diffusione nella società odierna che torna ad armarsi, per ora di parole, in vista di un muro-contro-muro tra nemici politici, antropologicamente inconciliabili. II “Dover essere” veltroniano si materializza nella configurazione di società pacificata a patto che si rimuovano dal suo corpo le tossine di ideologie antiche che avvelenano la convivenza collettiva.

Ma è qui che spunta il simpatico faccione di Giovanni Toti. Il governatore della Liguria si fa fotografare davanti a una scritta, apparsa in un sottopassaggio nel quartiere Sampierdarena di Genova, dall’inequivocabile contenuto: “Toti a testa in giù”. Come il cadavere di Benito Mussolini, esposto alla gogna di Piazzale Loreto a Milano. La minaccia è seria e non va sottovalutata. Ma è anche la risposta alla “fallacia naturalistica” che abbiamo voluto tirare su a viva forza dal pozzo delle deduzioni sull’iniziativa eterodossa del narratore Veltroni. La scritta contro Toti è l’Essere, la realtà dalla quale non può derivare alcuna logica previsione di riconciliazione morale delle due anime del Paese. Fin quando ci saranno episodi come quello capitato al governatore della Liguria che testimoniano di un odio mortale, vivente in una certa sinistra verso ogni declinazione della destra, la “collina” tratteggiata da Walter Veltroni resterà un luogo disabitato. Dai vivi e dai morti. Con buona pace di Edgar Lee Masters che si potrà tenere dall’aldilà la sua toccante antologia di poesie. Nessuna ricostruzione di una stagione della Storia può realizzare il suo scopo se prima non vi sia stata una seria revisione critica dei guasti prodotti e degli errori compiuti dai suoi protagonisti e dall’humus sociale che li sosteneva. Gli Anni di piombo di cui si parla non sono poi così lontani da noi. Alcuni di quei ragazzi che giravano in eskimo, barba incolta e capelli lunghi, con la copia di “Lotta continua” in una tasca e un tirapugni nell’altra, oggi sono attempati signori che hanno fatto brillanti carriere nel mondo che volevano abbattere.

Il nobile tentativo di Veltroni per avere speranza di successo deve partire non dalla condivisione della memoria dei morti ma dalla confessione postuma dei vivi che oggi fanno i borghesi, i politicamente corretti, i radical-chic ma che negli anni bui erano i mandanti morali dell’assassinio di Sergio Ramelli. Veltroni è tenue nel tratto di penna, predilige tinte pastello. Ma se avesse voluto sferrare un colpo dritto allo stomaco di quel tempo drogato di utopie e di violenza avrebbe dovuto esordire con ben altro piglio. Sarebbe stato più appropriato un “Venite fuori, fatevi guardare in faccia luridi bastardi che vi siete goduti dai corridoi dell’Itis “Ettore Molinari” di Milano, come da tanti altri luoghi, strade e scuole, fabbriche e università, il sacrificio di un vostro compagno colpevole di non pensarla come voi credevate di pensarla”. Senza questo passaggio, il “Dover essere” è neutralizzato dal sopravanzare dell’“Essere”, che è la minaccia a Toti; è l’accarezzamento del pelo di quei bravi ragazzi dei Centri sociali da parte della sinistra radical-chic; è quel maramaldeggiare concludendo ogni commento sulle loro violenze con un “Si, però...”. Senza una brutale destrutturazione della falsa narrazione degli “Anni di piombo”, concepita ad uso e consumo di chi l’ha scampata e vuole far dimenticare le proprie malefatte o semplicemente la propria ignavia, la “collina” di Veltroni si abbassa alla quota de “’A Livella” di Totò. Dove si vive, oltre la vita, di un unico destino. “...Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive/ Nuje simmo serie... appartenimmo à morte!”.

Aggiornato il 17 febbraio 2020 alle ore 11:33