I poteri sovrannaturali di Bonafede

Uno dei compiti più difficili ma ineludibili del nostro tempo – proprio di chi ancora cerchi di esercitare l’oneroso mestiere del pensiero – sembra essere quello di chiarire ad una opinione pubblica disorientata alcuni concetti assai rilevanti nell’ambito della amministrazione della giustizia.

Sul punto, sembra che politici, giuristi e commentatori facciano a gara nel provocare una tendenziale confusione concettuale al cui interno ciascuno diviene legittimato a ripetere pubblicamente ciò che gli passa per la testa, senza minimamente preoccuparsi della fondatezza dei propri assunti, pur di ottenere il facile applauso tanto fragoroso, quanto numerosi sono gli errabondi della divagazione mentale, in Italia presenti fra i pentastellati, fra i membri del governo, fra i parlamentari, fra gli stessi magistrati.

Non a caso, Hannah Arendt notava amaramente che “la mancanza di pensiero − l’incurante superficialità o la confusione senza speranza o la ripetizione compiacente di ‘verità’ diventate vuote e trite − mi sembra tra le principali caratteristiche del nostro tempo”.

Accenno ad un esempio, fra i tanti possibili, di tale confusione mentale.

Il ministro Alfonso Bonafede, per difendere la riforma della prescrizione – che di fatto renderà eterni i processi – ricorre di frequente al caso della strage di Viareggio (quella di un treno che si schiantò contro alcuni edifici, travolgendo diversi poveretti che si trovavano nei paraggi), perché nel processo che ne seguì maturò la prescrizione del reato nel corso del processo, prima di giungere alla sentenza: e lo fa animosamente, con vivo ardore, sostenendo con veemenza che ciò non deve accadere mai più, perché è una grave offesa per le vittime.

Allo stesso modo, diversi pentastellati, preda della medesima confusione, ripetono di continuo che mandare i reati in prescrizione, favorendo così gli imputati, significa ledere per una seconda volta gli interessi delle vittime. Tutti costoro, però, cadono in una esiziale confusione che dobbiamo qui denunciare con fermezza.

Essa risiede nella mistificante circostanza che contrapporre – come essi fanno – le vittime agli imputati rappresenta un grave errore di strabismo, nella grammatica processuale, tanto grottesco quanto nefando. Infatti, i veri ed unici antagonisti delle vittime del reato – per quanto grave esso sia – sono i suoi autori, cioè coloro che ne siano dichiarati colpevoli: sono questi – e questi soltanto – a dover rendere conto, a dover “rispondere” del loro operato, appunto i responsabili. Ebbene, gli imputati possono essere considerati responsabili del reato loro ascritto?

Anche un bambino risponderebbe di no: ogni imputato è solo un soggetto accusato del reato, ma soltanto nel momento in cui la vicenda processuale si sarà chiusa con una sentenza definitiva che lo dichiari colpevole – e non prima – potrà esserne definito davvero responsabile.

Ne viene che ogni tentativo di criminalizzare ad ogni costo un imputato prima della definitività dell’accertamento processuale da parte dei parenti delle vittime (per quanto questi meritino ogni umana comprensione) o da parte di ministri, politici, giornalisti e pentastellati vari non è che il frutto perverso e grottescamente assurdo della pericolosa confusione mentale sopra accennata.

Sarebbe come se il malato pretendesse a tutti i costi di essere subito operato di calcoli alla cistifellea, ma ancor prima di averne accertato la reale esistenza all’interno della ghiandola, per verificare la quale è prima necessaria una appropriata procedura diagnostica. Se un paziente ciò pretendesse, il medico curante, invece di sottoporlo al richiesto intervento, lo spedirebbe di filato alla neurodeliri: e ben a ragione, dal momento che in nessun caso egli potrebbe dichiarare la presenza di calcoli da rimuovere, senza aver prima eseguito una ecografia o un’altra procedura destinata alla diagnosi.

E allora – allo stesso modo – perché quando Bonafede, altri pentastellati, altri commentatori privi di pensiero dicono ciò che dicono, considerando colpevoli gli imputati, prima della procedura che ne valuti i comportamenti (che sarebbe come pretendere di farsi estirpare i calcoli prima di averne accertato l’esistenza) possono farlo come nulla fosse? Perché nessuno li richiama alla necessaria chiarezza del pensiero? Perché nessuno fra magistrati, politici, ministri, consulenti quirinalizi, sbalordito, non protesta per la pericolosa assurdità di tale contrapposizione?

Perché il Consiglio Superiore della Magistratura non si erge – nei suoi più autorevoli esponenti – per difendere gli imputati, dal momento che difendere questi, quali non ancora colpevoli, significa necessariamente difendere anche i giudici chiamati a giudicarli, mentre difendere questi non sempre significa difendere quelli? Perché si continua ad alimentare con silenzi e confusione mentale, in crescente pubblica affermazione, la visione degli imputati quali già colpevoli, mentre non lo sono affatto fino alla fine del processo che tali li riconosca?

Non ho risposte adeguate a questa domanda, se non una visione surreale, onirica. E cioè che Bonafede goda di un potere soprannaturale, procacciato magicamente, in forza del quale lui solo sappia, senza errore, quali imputati siano colpevoli e quali innocenti (ammesso che qualcuno se ne possa trovare). Basterebbe perciò affidarsi a lui per sapere, lasciando che dispensi il suo giudizio come gli aggrada. E non ci sarebbe neppure bisogno di Piercamillo Davigo quale eventuale giudice d’appello universale e monocratico.

Bonafede, come è noto, è infallibile. Come e più del Papa.

Aggiornato il 10 febbraio 2020 alle ore 10:18