Cosa è il processo

lunedì 3 febbraio 2020


Credo non inutile – dopo aver ascoltato da giorni gli interventi, il più delle volte del tutto sgangherati, nell’ambito della inaugurazione dell’anno giudiziario – fermare l’attenzione su un tema centrale: che cosa è il processo penale?

In proposito, è stato necessario sorbirsi come una medicina amara le opinioni più strampalate provenire anche da fonti formalmente autorevoli, ma fatalmente ignare della reale consistenza della trama processuale e comunque vittime inconsapevoli della domanda funzional-strumentale (come funziona?) che – lo notava anni or sono Umberto Galimberti – sembra aver definitivamente spodestato quella ontologica: tì estì? (che cosa è?), come si domandavano invece saggiamente i greci, allo scopo di scongiurare corbellerie varie, spacciate come autorevoli affermazioni.

Ma nonostante la diversità di opinioni in proposito – varie e soavemente ingiustificate e ingiustificabili, come si trattasse di scegliere, fra decine di gusti, un gelato alla crema o al pistacchio – una sorta di costante di fondo sembra essere sempre presente in molti commentatori, compresi gli addetti ai lavori, cioè magistrati, ministri, esponenti di forze politiche chiamati a votare in Parlamento le riforme al processo penale: e cioè la convinzione che il processo penale serva ad applicare la pena astrattamente prevista dalla legge.

Insomma, a prevalere di molto è la strampalata idea che il processo sia una sorta di strumento di cui bisogna servirsi allo scopo di punire il reo. Bisogna invece considerare che il processo, in uno Stato di diritto, è ben altra cosa. E precisamente è una “verifica” – meglio una “prova di resistenza”, per usare un gergo epistemologico – della ipotesi accusatoria: nulla di più o di meno.

Per esser più chiari, la cosa funziona all’incirca come segue. Una ipotesi accusatoria, più o meno grave, viene formulata a carico di Tizio. E allora, mentre in uno Stato totalitario – ove il diritto è morto e sepolto – si passa subito alla esecuzione della pena o, in alternativa, si imbastiscono processi-farsa (cioè i cosiddetti processi politici, tanto frequenti nell’Unione Sovietica) allo scopo demagogico di mascherare (malamente) il misfatto di una condanna scritta in partenza, al contrario, in uno Stato di diritto – quale dovrebbe essere il nostro – si organizza il processo in senso giuridico allo scopo di verificare o falsificare la ipotesi accusatoria a carico di Tizio.

Ne viene che il processo giuridico è un vero e proprio “diritto” dell’accusato, il quale – se ne fosse privato – rivendicherebbe subito il suo sacrosanto diritto al processo: basta chiederlo ai dissidenti sovietici, spediti nei Gulag della Siberia, sulla base di una generica e fantasiosa accusa, mai sottoposta ad una seria verifica processuale.

Il processo penale dunque si fa, anziché non farsi, per difendere l’imputato dalle accuse a lui mosse, e proprio per questo è un suo inalienabile diritto: e senza il processo, quale altro modo avrebbe l’accusato di difendersi?

Invito in proposito i sedicenti giuristi di casa nostra a rileggersi – se mai l’avessero già fatto – “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin oppure, a piacere, diversi scritti di Sacharov.

Non basta. In questa prospettiva, va aggiunto che il processo – comunque vada a finire, con una condanna o con una assoluzione – se regolarmente svolto, è sempre riuscito, ha sempre raggiunto il suo scopo, che è il giudizio sulle accuse: null’altro.

Pensare che il processo sia “riuscito” se giunge a condannare l’accusato e invece non lo sia se lo assolve, è l’effetto di un cortocircuito mentale – oggi purtroppo comune a molti sedicenti giuristi – in forza del quale si scambia la causa (l’accusa) con l’effetto (il giudizio) e l’accusato con il colpevole (come se bastasse essere accusati per venir considerati automaticamente colpevoli).

Per questo motivo, i vecchi giuristi son soliti dire che il processo è “auto-telico”, che non è una parolaccia, ma vuol soltanto significare che lo scopo (“telos”) del processo non è fuori di esso, ma è dentro di esso, al suo interno: è il giudizio.

È allora molto chiaro – per coloro non ancora accecati dal giustizialismo giacobino oggi veicolato dai pentastellati, dai loro epigoni e, ahimè!, da alcuni magistrati – che il processo penale non ha nulla a che vedere con la difesa della società. La difesa della società potrà esser considerata, al più, un effetto del tutto eventuale della condanna dei colpevoli, ma comunque si tratta di un elemento estraneo alla genuina trama processuale. Per questo, sorprende molto che se ne parli a proposito della funzione del processo e delle riforme che vanno inaugurate. Sorprende questa sorta di disagio del pensiero.

Sarebbe come se un gruppo di chef si mettesse a dibattere sulla possibile indigestione che “potrebbe” colpire alcuni commensali, invece di occuparsi del menu da servire e della sua bontà : pura follia!

Eppure, è questo lo spettacolo al quale tocca oggi assistere. E con malinconia, più che con preoccupazione. Quella malinconia che sorge nel constatare come ancora oggi – dopo oltre trent’anni – sia vero ciò che Leonardo Sciascia lamentava, quando denunciava come in Italia manchi, endemicamente, il “senso del diritto”.

Quel “senso del diritto” senza il quale è impossibile vivere in una compagine autenticamente umana, come ben sapeva Antonio Rosmini quando definiva il diritto “la persona sussistente”. E ancor più, se di questo disagio del pensiero si fanno preda anche coloro che – i giudici – dovrebbero combatterlo. In difesa del diritto.


di Vincenzo Vitale