Le vicende recenti della vita politica italiana assomigliano sempre di più ad una – involontaria – rappresentazione teatrale che alla vita come essa davvero dovrebbe svolgersi. In particolare, le maschere che agiscono sul palcoscenico, negli ultimi tempi, recitano un copione sulla riforma del processo penale, nel cui ambito sarebbe preferibile recitassero a soggetto.

Invece, i protagonisti – compreso Giuseppe Conte che sarà pure professore di diritto privato ma dà mostra di non capirci nulla del processo penale – si riuniscono per giorni, per settimane per poi partorire, da un apposito copione, scritto e riscritto, proposte di riforma come quella in cantiere.

Qui la sola ed unica preoccupazione sembra essere quella di sbrigarsi, di far presto e perciò si definiscono tempi massimi del processo, si prevedono sanzioni per il giudice che non li abbia rispettati e addirittura si immagina di chiamare a recitare una – insolita – parte il Consiglio Superiore della Magistratura, che quelle sanzioni dovrebbe in concreto irrogare.

Insomma, un groviglio di competenze e di incompetenze, una matassa di stupidità istituzionali e giuridiche delle quali ovviamente gli attori che recitano non si accorgono neppure e che invece bisogna rapidamente evidenziare.

Oggi, va denunciato il fatto gravissimo in forza del quale codesti signori vedono come problema unico del processo penale quello del tempo.

Ora, se è vero che i processi durano troppo, è anche vero che nessuno di costoro si chiede come mai circa il 60 per cento delle sentenze di primo grado venga riformato in Appello e la metà di quelle di appello lo sia in Cassazione. In altre parole, oltre la metà delle sentenze rese dai Tribunali e la metà di quelle rese dalle Corti d’Appello sono ingiuste e perciò vengono riformate in tutto o in parte.

Vi sembra una media accettabile? A me no. Anzi, mi sembra che il vero problema del processo penale si trovi proprio nel gran numero di sentenze sbagliate che, obbligando alla impugnazione il malcapitato di turno, allunga di molto la sua durata.

Solo le anime candide dei nostri riformatori, nutrite da quel giacobinismo da strapazzo – privo cioè delle pur nobili idealità che animarono i veri giacobini – che infiamma i 5 Stelle, non capiscono una cosa semplice e che dovrebbe inquietare i loro sonni, mentre invece sembrano dormire benissimo.

E cioè che nel processo penale – al pari di tante altre attività della vita umana – tempo e capacità non sono grandezze irrelate, prive di connessione, indipendenti l’una dall’altra, ma al contrario sono strettamente collegate.

Non a caso, Quintiliano scriveva che “cito scribendo, non fit ut bene scribatur; bene scribendo, fit ut cito”, che vale “scrivendo in fretta non accade di scrivere bene; scrivendo bene accade di scrivere in fretta”.

Insomma, se i processi fossero celebrati come Dio comanda, durerebbero di gran lunga di meno; ma siccome vengono fatti male – generando alla fine sentenze inique e perciò impugnazioni a raffica – durano molto di più.

Ecco dunque la chiave di volta che i nostri riformatori non sospettano neppure, accecati dal giustizialismo che li divora: e cioè che se il processo penale non riesce a garantire nella maggior parte dei casi un tasso accettabile di giustizia, allora anche il tempo si allunga a dismisura.

E allora?

Perché questi sedicenti illuminati riformatori non pensano piuttosto a fare in modo che i giudici sbaglino di meno nelle sentenze che emettono?

Perché non pensano a garantire meglio quei diritti fondamentali degli esseri umani la cui violazione in sede processuale comporta sempre nuove impugnazioni?

Perché non pensano ciò che va pensato davvero – la giustizia delle decisioni – e invece pensano ciò che è del tutto secondario e che comunque dipende dal tasso di giustizia – e cioè il tempo?

Inoltre, i grandi geni che purtroppo ci governano dovrebbero considerare che una seria amministrazione della giustizia non tollera in alcun modo limiti temporali predefiniti, non tollera la fretta fine a se stessa, esigendo invece adeguata ponderazione e inesausta riflessione.

Sicché il loro grave errore sta proprio nel voler piegare le ragioni della giustizia a quelle della durata temporale, facendo di questa una sorta di letto di Procuste (e se i pentastellati se non sanno di cosa parlo lo cerchino nella enciclopedia), entro il quale costringere la ripartizione del giusto e dell’ingiusto, delle ragioni e dei torti. Si può essere più insulsi di così? Invece di cercare più giustizia per accorciare la durata del processo, accorciano forzosamente questa anche a costo di umiliare quella.

Eppure già nel I secolo a.C., Publilio Siro aveva notato che “ad poenitendum properat, qui cito iudicat”, che vale “si precipita sulla strada del pentimento, chi giudica in fretta”.

Non pretendo certo che Luigi Di Maio o Danilo Toninelli conoscano questo drammaturgo minore del primo secolo, ma che almeno cerchino di capire cosa ci volesse dire… se si sforzano ci riusciranno. Forse. Si pentiranno ?

Aggiornato il 27 gennaio 2020 alle ore 13:34