Il Quirinale sullo sfondo

I partiti di opposizione hanno annunciato che in caso di vittoria alle Regionali di domenica 26 gennaio chiederanno al Capo dello Stato lo scioglimento delle Camere. Siccome la paura fa novanta, i partiti di maggioranza - non tutti, in verità - hanno messo subito le mani avanti: il governo, quale che sia l’esito delle urne, non cadrà.

Fin qui nulla di muovo sotto il sole. È normale che forze antagoniste si fronteggino, dando fiato alle aspettative dei rispettivi elettorati. E dunque è naturale che Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia vogliano usare il risultato delle regionali, se a loro favorevole, per arrivare rapidamente al voto nazionale, e che Pd, Leu e una parte del Movimento 5 Stelle cerchino di blindare il Parlamento e il Governo.

Al di là di questa fisiologica dialettica, però, molti politici, anche della maggioranza, e commentatori credono che la caduta del Governo sia ipotesi concreta e lo sia anche se in Emilia Romagna dovesse vincere il candidato presidente del centro sinistra.

Di qui, per esorcizzare questo rischio, il tentativo di tirare in ballo il Quirinale ancor prima del voto. Lo ha fatto da ultimo, con penna garbata e linguaggio arrotondato, Michele Ainis dalle colonne di Repubblica di mercoledì 22 gennaio. Il costituzionalista propone una “lettura” del ruolo della presidenza della Repubblica che potrebbe consentire al Presidente in carica di non cedere alle richieste dell’opposizione. Il succo del ragionamento è questo: il Capo dello Stato non è il megafono del popolo ma è voce esclusiva della Costituzione e siccome la Costituzione prevede che la legislatura duri cinque anni, egli deve resistere alla tentazione dello scioglimento anticipato. Scrive Ainis: “in un regime parlamentare lui (il Presidente n.d.r.) è voce della Costituzione, non del popolo. E proprio dalla Costituzione muove l’argomento decisivo contro l’idea di correre alle urne”.

Questo modo di ragionare, chiaramente disposto a protezione dell’attuale compagine governativa, non è condivisibile. Intendiamoci, non esiste una verità o la verità interpretativa. Il diritto, compreso quello costituzionale, non ha verità da proporre giacché non è una scienza esatta o “dura”. Ciò nondimeno, al diritto devono essere date interpretazione e applicazione rigorose, vale a dire non contraddittorie, coerenti e agganciate alla realtà sulla quale devono ricadere.

Ora, fosse vero che la Costituzione è separabile - e separata - dalla forza vivificante della volontà popolare, vorrebbe dire che la nostra democrazia si regge su un prodotto morto, su un freddo pezzo di carta, magari stampigliato a caratteri dorati, ma disteso su una gelida lastra di marmo.

All’evidenza non è così. Adottare una lettura puramente formalistica della Costituzione e isolare la presidenza dalla realtà significa svuotare la presidenza stessa di ogni più autentico valore sostanziale. Valore che discende solo - e non può che discendere - dal collegamento col sovrano, ossia col popolo. In altre parole, è soltanto dal legame col sovrano che l’istituzione trae legittimazione, credibilità e rispetto ed è proprio a questo legame che s’ispira - e non può che ispirarsi - la sua azione.

Chiedere al Presidente di rinunciare a questa primaria funzione di raccordo quando le urne fotografano una divergenza radicale tra ripartizione delle forze in Parlamento e voti sui territori, sarebbe, questa sì, una richiesta contraria alla scala delle priorità che la stessa Costituzione incorpora. E siccome è indiscutibile che essa metta al primo posto il voto popolare quale espressione della sovranità, significa che tutte le altre questioni, pure importanti, stanno dopo, a iniziare dal referendum sulla modifica del numero dei parlamentari fino alla nuova legge elettorale. Volerle mettere in cima per impedire o ritardare il voto politico nazionale significherebbe rovesciare il cono dei valori vivificanti la democrazia. E questo non è o non sarebbe possibile, neppure alla sinistra.

Aggiornato il 24 gennaio 2020 alle ore 11:45