Da Asti i pericoli per la democrazia

L’incresciosa vicenda di Asti – il Tribunale pronuncia sentenza prima che la difesa abbia esposto le proprie ragioni – non deve farci gridare allo scandalo.

Deve farci riflettere. Da troppo tempo, tolleriamo che si predichi ai quattro venti un’ideologia che, di questo fatto, è la causa. Perché disperdere le prove raccolte in indagini, senza l’intervento della difesa? Perché, quando cambia il giudice (quello che dovrà decidere il destino di una persona, mica uno di passaggio), ricominciare tutto daccapo e non accontentarsi dei verbali già raccolti? Perché, dunque, ascoltare la difesa? Vorrete mica sostenere che il Tribunale non sa che cosa fare? Vorrete mica essere così sfrontati da ritenere insufficienti le indagini del pubblico ministero? Ecco dove siamo arrivati. Siamo arrivati qui. Le cose capitano quando esistono le condizioni che lo consentono, o, peggio, lo favoriscono.

Dietro i progetti di semplificazione del nostro mirabile Guardasigilli c’è il disegno di cancellazione di quelle forme che, secondo lui e i suoi ispiratori, sono delle semplici perdite di tempo, che ostacolano la punizione dei colpevoli.

La vicenda di Asti, quindi, leggetela in questa prospettiva. Ma a tutti coloro che protestano per la clamorosa “gaffe” del Tribunale di Asti, ricordo l’incipit di uno dei libri più belli mai letti, “Il mistero del processo” di Salvatore Satta, giurista il cui solo nome dovrebbe fare impallidire l’intrepido Presidente del Consiglio. Satta apre “Il mistero del processo” dicendo “Narrano le storie che...”. Le storie di cui parla Satta raccontano che, nel 1792, mentre il Tribunale Rivoluzionario era intento a giudicare un drappello di ufficiali fedeli al Re, una folla inferocita fece ingresso nell’aula urlando: “Dateli a noi!”.

Il Presidente del Tribunale, tendendo il braccio, zittì i rivoltosi ed affermò perentoriamente: “Gli accusati sono sotto la spada del Tribunale”.

Pensate voi, dice Satta, che quegli sciagurati avessero speranza di salvezza? No, nessuna speranza. Li aspettava il patibolo, già allestito per l’occasione. E allora perché giudicarli, chiede l’Autore? Per dare legittimazione ad una condanna già scritta; per rivestire di forma l’inesorabile.

Quelle “storie” di cui parla Satta non sono cambiate; continuano a raccontarci le stesse cose. Oggi, però, abbiamo fatto un passo in avanti: le forme non sono più fonte di legittimazione della decisione, ma un intralcio da eliminare, per consentire che la giustizia del popolo faccia il suo corso.

A chi pensa che io stia parlando dei magistrati, rispondo così: io parlo di voi; io parlo di quelle ignobili idee giacobine che vi ispirano; parlo della vergogna che dovreste provare al solo pensiero delle sciocchezze che avete in zucca; parlo dei pericoli che corre la democrazia, a causa vostra. Dei magistrati che condividono il vostro pensiero, non degli altri ai quali va tutto il mio rispetto, non parlo: io non parlo della servitù. Non è elegante.

Aggiornato il 23 dicembre 2019 alle ore 12:58