Nicola Zingaretti, l’uomo venuto dal ghiaccio

Nella tre giorni di Bologna, organizzata dalla Fondazione Costituente di Gianni Cuperlo per celebrare un gigantesco rito di elaborazione del lutto dopo la dipartita dal Partito Democratico verso altri lidi di una quota dell’ala di stretta osservanza renziana (l’altra è rimasta nel Pd a guardia degli interessi che il “rottamatore” mantiene nel suo ex partito), qualche rilevante spunto di riflessione è stato avvertito.

Il segretario Nicola Zingaretti si è speso per non farsi chiudere nell’angolo dalla tattica renziana che lo vorrebbe proteso ad allargare a sinistra il consenso per il Pd. Il fratello del “commissario Montalbano” ha fiutato il veleno contenuto nella polpetta servitagli dall’ex sodale di partito. A sinistra non c’è granché da conquistare. Come dimostra la parabola politica dei dinosauri di “Liberi e Uguali”, da Pierluigi Bersani a Massimo D’Alema passando per il giovane-vecchio Roberto Speranza, oggi prigionieri della parte desertificata del campo, dove un tempo avrebbero trovato posto le ragioni del socialismo. Non è che sia tutta colpa degli epigoni del Partito Comunista se, avendo perduto il comunismo, si sono lasciati scappare anche il socialismo. La realtà è più complessa.

L’avvento della globalizzazione economica ha colto alla sprovvista l’ottocentesca ideologia del progressismo delle masse lavoratrici. I codici con i quali a sinistra venivano interpretate le dinamiche di classe sono risultati inadatti a comprendere gli standard produttivi scaturiti dallo sviluppo del mercato unico globale e dalla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone. Il socialismo ha smesso di parlare al suo popolo per carenza di argomenti convincenti. Non solo in Italia, ma dappertutto in Europa. A testimoniarne il fallimento vi sono i drammatici risultati elettorali che danno perdente ovunque la sinistra tradizionale. Tuttavia, il vuoto di proposta creatosi a seguito della crisi del socialismo è stato prontamente occupato, nel dialogo con le categorie sociali più deboli e maggiormente esposte ai rischi connessi alla diffusione della globalizzazione, dai movimenti e dalle ideologie populiste della destra identitaria e sovranista. In Italia, il fenomeno ha avuto inizialmente uno sviluppo ambiguo a causa dell’esistenza in contemporanea di due declinazioni del populismo: il grillismo e il leghismo 2.0 ispirato da Matteo Salvini.

Di recente, grazie allo smascheramento del Cinque Stelle che da movimento antisistema si è palesato partito a difesa dell’establishment, l’onda di piena del consenso protestatario tende a riversarsi sulla Lega. Non a caso i sondaggi, e le prove elettorali locali, danno dallo scorso anno il partito di Salvini tra il 33 e il 34 per cento, mentre i partitini a sinistra del Pd continuano a marcare numeri da prefisso telefonico. Ora, Zingaretti ha chiaro lo scenario e per questo, nel discorso di Bologna, ribadito nell’intervista di ieri a “la Repubblica”, annuncia di voler estendere lo spazio del partito a un orizzonte più ampio di quello attuale. Cioè Zingaretti intende sfidare Matteo Renzi sul terreno della conquista del consenso a destra. Legittimo, ma il suo proponimento prende le mosse da un errore in premessa che è il medesimo compiuto da Renzi. Per entrambi, l’incipit della manovra di riposizionamento strategico, usando le parole mutuate dalla riflessione di Marina Sereni consegnata all’Huffington Post, ruota sull’idea di “strappare alla destra quegli elettori che, a causa delle paure e delle inquietudini che la crisi ha prodotto e acuito, cercano protezione e speranza per il futuro”. L’errore di Zingaretti, e di Renzi, sta nello giudicare lo spostamento a destra di una quota significativa di elettorato conseguenza di paure e di ansie che avrebbero generato un anomalo bisogno di protezione. È una stupidaggine di gigantesche proporzioni. Il segmento di cui si discute riguarda prevalentemente i ceti medi produttivi tradizionali in crisi a cui si è aggiunta una quota di classe operaia ugualmente penalizzata dagli effetti della globalizzazione. La molla che spinge il “popolo degli abissi” (la definizione è del professor Giulio Sapelli) a stare oggi con Salvini non scaturisce dal sentimento della paura quanto dalla voglia di riscatto o, più propriamente, da una istanza di affermazione egemonica di centralità nelle dinamiche su cui si articola l’azione dello Stato, ampiamente tradita dalle ideologie di matrice progressista che sono scese a patti con la volontà di potenza dei protagonisti della globalizzazione.

Per farla semplice, l’idea che Zingaretti si rivolga a un ipotetico elettore della odierna destra e gli dica: “Voglio liberarti dalla paura che ti ha spinto a stare con Salvini, la Meloni e Berlusconi”, è fallace. Già, perché quell’ipotetico interlocutore gli risponderà: “Ma chi ti dice che ho paura. Voglio solo riprendermi il Paese, le certezze esistenziali, il lavoro e non voglio che qualcuno venga a dettare legge in casa mia”. La spinta motivazionale, come direbbero quelli bravi, non è la paura ma l’orgoglio. Che Zingaretti e compagni dicano oggi che vogliono liberare risorse per abolire le disuguaglianze che loro per primi hanno contribuito a creare negli anni è surreale. Adesso si vogliono “liberare le risorse” dopo che nell’ultimo decennio, durante il quale ha governato prevalentemente la sinistra, si è consentito l’esodo di un’intera generazione di giovani che non ha trovato spazio nel sistema economico-produttivo del Paese? E per di più, la sinistra per anni si è fatta vanto di raccontare che quell’emigrazione era cosa buona visto che ormai, abbattuti i confini e cancellate le patrie, restare italiani non avrebbe avuto senso quando l’alternativa sarebbe stata essere pienamente europei. Quel popolo che ha voltato le spalle alle sinistra non crede più al mito dell’egualitarismo. Piuttosto, pretende di conoscere la propria collocazione nella comunità nella sacrosanta aspettativa di vedere riprendere a funzionare l’ascensore sociale. L’elettorato che Zingaretti illusoriamente vorrebbe “liberare” è seriamente impegnato a riprendersi il futuro. Tale è il patto stipulato con il sovranista Salvini, al quale hanno aderito la destra conservatrice oggi rappresentata da Giorgia Meloni e un non convintissimo Silvio Berlusconi che, negli ultimi tempi, somiglia al tal comunista romagnolo interpretato da Maurizio Ferrini che alle novità imposte del partito rispondeva monocorde: “Non capisco, ma mi adeguo”. Il vecchio leone di Arcore non è a suo agio nel nuovo mondo dei postumi della globalizzazione, tuttavia ha fiuto politico per cui istintivamente si colloca dove sente che il suo elettorato intende stare, cioè a destra e non certo a rimorchio di Matteo Renzi e della patacca del liberalismo di sinistra.

Zingaretti vorrebbe fermare la Storia. Che ci provi ma non pensi di riuscirci cambiando la narrazione, fingendosi un inguaribile romantico, nostalgico della sinistra larga che fu. Può funzionare per organizzare un revival di vecchie glorie della meglio gioventù comunista. Non certo per parlare a una destra che riscopre la voglia e il gusto della vittoria in battaglia.

Aggiornato il 20 novembre 2019 alle ore 11:40