Dall’Ilva al Mo.s.e.: i guasti della Repubblica giudiziaria

Venezia ha rischiato, letteralmente, di morire annegata. Sotto un’acqua alta che con il vento di scirocco a cento chilometri orari ha sfiorato la soglia di centonovanta centimetri sul medio mare. I danni sono gravissimi e già si contano le vittime.

Il picco di un metro e ottantasette centimetri, raggiunto ieri sera alle 22.50, la seconda misura nella storia della Serenissima, subito dietro al record dei centonovantaquattro centimetri del 1966.

I numeri, nella loro crudezza, indicano che in questi ultimi cinquant’anni non si è fatto niente per difendere Venezia. La costruzione del MO.S.E., la diga mobile che doveva difendere la città dall’acqua alta e i cui lavori sono iniziati nell’ormai lontano 2003, è di fatto ferma a seguito delle vicende giudiziarie verificatesi tra il 2013 e il 2014.

Dallo stesso 2014, il controllo del Consorzio Venezia Nuova è nelle mani dello Stato, dopo che a dicembre l’Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) ne ha proposto la gestione straordinaria.

A ben vedere, l’acqua alta in Piazza San Marco è, con l’Ilva che sta chiudendo, il tragico simbolo di un Paese ostaggio di demagogia e moralismo a buon mercato. Il populismo penale che da oltre due decenni sta prendendo a picconate diritti e garanzie ha, infine, fagocitato pure ogni attività d’impresa, si tratti di produrre acciaio o costruire una diga.

Alla fine, questo impazzimento giacobino fatto di una politica che al tempo stesso strumentalizza ed è strumentalizzata da ciò che avviene nei tribunali, fatto di magistrati che prima indagano e poi – sulle ali d’indagini spesso svolte a favore di telecamere – vanno ad amministrare, fatto di un Paese tutto che bovinamente ha accettato di barattare lo Stato di dritto con la pubblica gogna ha presentato il conto e siamo tutti sott’acqua, non solo a Venezia.

Aggiornato il 13 novembre 2019 alle ore 12:56