ArcelorMittal: l’imperativo è salvare Taranto

Perché salvare l’acciaieria di Taranto è fondamentale? Non è soltanto una questione occupazionale, anche se 10mila 700 dipendenti, più i lavoratori dell’indotto, a rischio perdita del posto di lavoro non sono un’inezia sulla quale si possa sorvolare. La difesa più convincente dell’acciaio italiano la illustrò Oscar Sinigaglia, l’ingegnere messo da Alcide De Gasperi a redigere il piano siderurgico nazionale. Nel 1946 Sinigaglia esordì affermando: “Io difendo la siderurgia non solo perché ha 60mila operai ma perché è la base indispensabile per l’industria meccanica, perché considero quest’ultima uno dei più alti e importanti interessi italiani”. Sono passati 73 anni e l’argomentazione regge ancora: senza acciaio, niente industria. E niente secondo posto della manifattura italiana in Europa. Ecco perché l’ex Ilva va salvata.

Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, domani proverà a riportare i vertici di ArcelorMittal al tavolo negoziale per ricomporre un rapporto drammaticamente incrinato dal malvezzo italico di cambiare idea in corso d’opera sugli accordi presi. Ma non è solo la politica il problema. Nella società italiana si registra la tendenza dei diversi Poteri a marcare l’indipendenza nei propri ambiti giurisdizionali inverando una sorta di anarchismo istituzionale per il quale la mano sinistra dello Stato può disfare, senza pagare pegno, ciò che con fatica la mano destra ha creato. In Italia l’interesse individuale o corporativo prevale su quello collettivo, per cui fare sistema è fatica improba.

Molto si è detto dell’improvvido autogol dei grillini nel cancellare lo scudo penale, pur previsto nel contratto sottoscritto, ai dirigenti di ArcelorMittal per le opere di bonifica da realizzare sulle aree asservite alla fabbrica e sugli impianti. Meno, invece, si dice della decisione della Procura della Repubblica tarantina di ordinare al custode giudiziario dell’impianto l’avvio della procedura di spegnimento dell’altoforno 2, che potrebbe comportare conseguenze sul funzionamento degli altri due altiforni rimasti operativi. Se su una questione di tale rilevanza Governo e magistratura non riescono a trovare una linea d’azione comune per non danneggiare gli interessi del Paese, con quale faccia si domanda a un privato di sacrificarsi?

Il problema vero, di là dalle ingenuità compiute dal Governo giallo-fucsia su impulso dei grillini, lo ha individuato l’ex ministro Giulio Tremonti che, in un’intervista al quotidiano La Stampa, ha chiarito che l’errore devastante non sia stato la privatizzazione dell’ex Ilva, ma il fatto di averla data agli indiani di ArcelorMittal senza prevedere una compartecipazione della mano pubblica. Se è vero che l’acciaieria è un asset strategico, lo Stato avrebbe dovuto restare con un piede dentro alla fabbrica. Non fosse stato altro per bilanciare con la messa in campo di un interesse più ampio, di portata strategica, da tutelare, la naturale tendenza del privato a compiere scelte di policy aziendale ispirate alla massimizzazione dei profitti.

Adesso che la frittata è fatta e non si ha alcuna certezza di convincere gli indiani a ritornare sulla decisione di abbandonare l’impresa, c’è chi ne ipotizza la nazionalizzazione per salvare occupazione e produzione. Posto che per un intervento del genere andrebbero mobilitate risorse finanziarie che, al momento, il Bilancio pubblico italiano non ha da spendere e andrebbe bypassata l’ostilità delle istituzioni comunitarie per un evidente caso di aiuti di Stato, pensare a un ritorno all’antico dello Stato-Pantalone che mantiene aperte le aziende decotte pur di pagare stipendi e tenere in piedi una finta occupazione è semplicemente folle. Quei tempi, per fortuna, sono andati e non si avverte alcun bisogno di rievocarli. Tuttavia, non sarebbe sacrilego, dal punto di vista della salvaguardia dei principi della libera impresa, pensare che lo Stato possa affiancare un privato nella titolarità di un bene messo a reddito secondo le regole del mercato. Non sarebbe un male se si guardasse al sistema francese. Alcune grandi aziende transalpine, pur se privatizzate, mantengono nella base azionaria una partecipazione statale che non interferisce con la gestione dell’impresa, ma può impedire al management di compiere scelte contrarie agli interessi generali della Francia. Perché in Italia non si è fatto allo stesso modo? Soprattutto quando, negli anni Novanta, c’è stata la sospetta svendita agli oligopoli privati di parte dell’eccellenza industriale nostrana. Non sarebbe stato sbagliato per lo Stato restare il dominus nella vita delle grandi reti infrastrutturali, sia fisiche, sia immateriali, perché esse sono il collante che assicura lo sviluppo di qualsiasi economia. Ma, al tempo stesso, oltre ad assicurare la sicurezza, l’autonomia e l’integrità della nazione, possono garantire la coesione sociale, necessaria in un Paese con un enorme gap di crescita tra le sue aree geografiche interne. Lo stesso vale per taluni comparti trainanti dell’industria. Alla chiusura dell’Ilva è legata la stima di perdita del 1,5 per cento del Pil. Sarebbe un danno irrimediabile. La famiglia Mittal, che ha il coltello dalla parte del manico, riaprirà il negoziato solo a condizione che il Governo sia disposto a trattare sul piano esuberi. Conte e compagni non hanno scelta: se vogliono vedere ripartire la produzione devono accondiscendere all’idea che 10.700 addetti sono troppi e una parte di essi va collocata altrove. D’altro canto, c’è una bonifica da fare? Perché, come propone l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, non scorporare una quota di lavoratori ponendoli in carico a una diversa entità aziendale allo scopo di continuare la bonifica del sito? ArcelorMittal pagherebbe il servizio senza dover mantenere un numero eccessivo di lavoratori a libro paga. Per l’impresa franco-indiana sarebbe comunque un risparmio sui costi.

Poi c’è la questione giudiziaria. Il Governo intervenga per assumere impegni chiari che disinneschino gli effetti dei provvedimenti cautelari disposti in sede penale. Nessun imprenditore può lavorare tranquillo con il fiato addosso della Procura. La permanenza di tutti i fattori ostativi alla ripresa della produzione danneggia l’immagine dell’Italia nel mondo. Chi vorrebbe investire in un Paese dove l’alea del rischio è riconducibile quasi esclusivamente ai comportamenti schizofrenici dei vari rami della Pubblica amministrazione? ArcelorMittal è sollecitata a lasciare l’Italia dall’outlook negativo ricevuto di recente dall’agenzia di rating Moody’s, proprio a causa dell’investimento fatto sull’ex Ilva. Non è un bel biglietto da visita per il nostro Paese apprendere che chi investe da noi corra il rischio di essere declassato negli indici di fiducia. Una scelta tempestiva e coraggiosa da parte del Governo potrebbe rimettere parzialmente le cose a posto. Lo zelig lasciato a Palazzo Chigi, dopo la tempesta agostana, per volontà del Presidente della Repubblica non ci piace. Di lui non ci fidiamo. Adesso però ci turiamo il naso e facciamo il tifo perché riesca a spuntarla nella trattativa in salita con ArcelorMittal. Chi è di destra è fatto così: mette l’interesse della nazione davanti a ogni altra cosa, anche alle proprie simpatie politiche. Ecco perché non suoni trasformista o contradditorio esclamare oggi: forza presidente Conte, siamo con lei!

Aggiornato il 11 novembre 2019 alle ore 11:57