Destra vincente e piedi piantati in terra

Va bene che si è vinto in Umbria, ma ora non ci si monti la testa. Perché se Atene (la sinistra) piange, Sparta (la destra) non ride. Prendere voti non è un successo sportivo, è piuttosto un caricarsi sul groppone un’enorme responsabilità.

La Lega di Matteo Salvini ha fatto il pieno di voti toccando nella piccola regione del Centro Italia numeri che in passato soltanto i grandi partiti di massa hanno raggiunto. Oltre a cantare vittoria sarebbe opportuno domandarsi chi è che ha votato per la Lega e, più in generale, per la destra plurale. Di certo i ceti medi produttivi tradizionali, maltrattati oltre misura dalle politiche punitive della sinistra nemica delle partite Iva, della piccola impresa, del commercio e dell’artigianato. Qualcuno ha osservato che la Lega in particolare sia stata votata nelle aree della desertificazione industriale, a Terni dai lavoratori e dai cassintegrati delle locali acciaierie. Ciò significa che il voto operaio si è spostato da sinistra a destra. Significa che la parte sopravvissuta della classe lavoratrice, un tempo caposaldo del blocco sociale che sosteneva il Partito comunista, ha cambiato campo cercando nella nuova destra identitaria quella protezione sociale dal perseguire la quale una sinistra evoluta in direzione della rappresentanza degli interessi dei ceti cosiddetti “garantiti” ha totalmente abdicato. Lo smantellamento parziale del sistema di garanzie sociali con la contestuale esplosione del fenomeno dei “lavori atipici”, la deregolamentazione dei mercati dei beni e finanziari, la crisi del modello fordista nella produzione, l’autoreferenzialità delle organizzazioni sindacali, la concorrenza sleale delle masse umane incentivate a migrare dal Terzo Mondo per formare nell’Occidente avanzato quell’esercito industriale di riserva di marxiana memoria, hanno generato nei lavoratori autoctoni, scivolati sotto la soglia della povertà anche in costanza di impegno lavorativo, una perdita d’identità di classe. Tale condizione ha prodotto un vuoto valoriale che è stato “naturalmente” colmato trasferendo l’istanza identitaria dal piano economico a quello comunitario/territoriale.

Il fenomeno in Europa non è nuovo. Già il Front National di Marine Le Pen si è trovato in anni passati a vincere in competizioni elettorali nei due Dipartimenti del Nord-est della Francia, storicamente feudi della sinistra comunista, nei quali la crisi occupazionale determinata dall’avvento della globalizzazione è stata devastante.

Ugualmente accade nella ex Germania dell’Est dove l’impoverimento ulteriore delle classi lavoratrici ha portato al trionfo, recentemente nel Land della Turingia, della forza sovranista di estrema destra Alternative für Deutschland. Ora, però, spetta alla Lega, più che alle altre componenti della nuova coalizione, rispondere alla domanda di protezione sociale scaturita da ambienti sociali tradizionalmente distanti dalla destra. Il che non è facile e neppure scontato, visto che anche il partito di Salvini, nelle sue articolazioni settentrionali e del leghismo della prima ora, ha espresso orientamenti favorevoli a uno sviluppo in senso liberista, e non sovranista, dell’economia e del mercato.

Insomma, si respira a destra aria di contraddizione che porta ben oltre la quadratura del cerchio della strategia di coalizione quando si tratterà di proporre provvedimenti normativi a tutela degli sconfitti dalla globalizzazione, destinati inevitabilmente a confliggere con i principi liberisti della libertà assoluta d’impresa. Senza dubbio Salvini ha un vantaggio culturale nell’aver per tempo intrapreso l’esplorazione delle soluzioni organiciste riguardo allo sviluppo dei rapporti intracomunitari. L’idea di superare a piè pari il conflitto di classe invocando una condivisione identitaria che abbatta gli steccati sociali nel nome di un idem sentire comunitario si sta mostrando la chiave del successo odierno della nuova destra plurale. Convince la maggioranza degli elettori una lettura del presente che demarchi la linea di faglia tra un “alto”, fatto di élite globaliste e poteri forti sovraordinati agli Stati nazionali e un “basso” fatto di popolo, nella doppia accezione materiale e spirituale. Tuttavia, tale interpretazione delle dinamiche conflittuali in atto reggerà alla prova della realtà?

Una volta al potere, all’onnivoro Salvini si imporranno decisioni che non potranno essere condivise “universalmente” dalla comunità. Ci sarà da scontentare una parte di coloro che oggi si affidano con fiducia ed eccesso di speranza a un potere erroneamente salvifico del leader carismatico leghista. Il che può gratificare l’ego della persona ma votarsi al messianismo, all’intervento salvifico del salvatore della patria di turno, non è mai buona cosa. Purtroppo, è un prodotto della natura irrazionale delle masse pensare che la politica possa mutuare il fine escatologico dalla teologia. Non si diceva un tempo che il Partito Comunista fosse la chiesa del proletariato? Crollata malamente quell’utopia, altri soggetti sono stati individuati come portatori di una speranza di tipo messianico.

Negli anni Novanta anche il poliedrico Silvio Berlusconi ha goduto dell’appellativo di “uomo della Provvidenza”. Per qualche breve momento è stato il “rottamatore” Matteo Renzi il “redentore” sul quale puntare. Fallito lui si è passati a Beppe Grillo, che con gli stilemi propri dell’uomo di spettacolo si è calato comodamente nei panni di un novello Jesus Christ Superstar. Scioltasi come neve al sole la palingenesi grillina, è la volta di Salvini di generare speranza. È pronto il “Capitano” a rispondere alla chiamata con atti concreti e convincenti oppure registreremo la falsa nota del crollo delle illusioni sullo spartito dell’ennesimo “Götterdämmerung”, in questo caso intonato sull’offerta politica leghista? Con i sentimenti della gente non si scherza. È indubbio che Matteo Salvini sia un formidabile animale da campagna elettorale, una macchina macina voti che non ha eguali nell’odierno panorama politico. Ma questo non basta. Un conto sono le vittorie elettorali, altro è la capacità di proposta per governare la complessità del nostro complicatissimo modello sociale ed economico.

Oggi quello che il professor Giulio Sapelli chiama “il popolo degli abissi” coltiva l’ambizione, accecante negli eccessi, di ribaltare i rapporti di forza con le classi dominanti rese vincenti dalla globalizzazione. E lo strumento del riscatto sarebbe il voto alla Lega. Una lettura da infantilismo massimalista che per primo Salvini dovrebbe preoccuparsi di smontare, almeno di non incoraggiare. Non è che pur di fare risultato tutto faccia brodo, perché poi anche il brodo può riservare sgradevoli inconvenienti. C’è un non trascurabile problema di compatibilità di visioni tra il sovranismo aurorale salviniano-meloniano e la compente ctonia liberale della nuova destra plurale. Che fa Forza Italia? Accetta “laqualunque” pur di restare attaccata al carro del vincitore? Oppure pensa di mettere dei paletti ideologici, prima ancora che programmatici, all’azione di governo del capocordata leghista? Quando il presidente Berlusconi dice che il suo partito, benché ridotto a un formato bonsai, è necessario alla coalizione perché previene dal rischio dell’affermarsi di una destra estremista, cosa intende? Posto che né Matteo Salvini né Giorgia Meloni abbiano mai fatto cenno alla possibilità di un rivolgimento golpista della forma democratica dello Stato, una volta conquistata la maggioranza parlamentare, è lecito supporre che il vecchio leone di Arcore si riferisse a talune idee-bandiera portate avanti dalla Lega 2.0 in materia di protezione sociale come lo stop alla deregolamentazione selvaggia dei contratti di lavoro o la tanto vituperata “Quota 100” in materia di accesso al trattamento pensionistico dei lavoratori. Da Forza Italia si pensa di mettere su queste tematiche il bastone tra le ruote dello schiacciasassi Salvini? Se è questo il disegno allora meglio salutarsi da buoni amici prima di cominciare, magari pattuendo di limitare l’alleanza alle sole partite elettorali amministrative.

Come si può constatare, le vittorie non portano soluzioni definitive ma solo nuovi problemi da risolvere. Se volete è il proverbiale scetticismo dell’uomo di destra che non si lascia andare all’euforia neppure quando vince. Come in Umbria.

Aggiornato il 04 novembre 2019 alle ore 10:40