Dall’effetto Umbria allo tsunami nazionale

Hanno vinto tutti o, in caso contrario, hanno perso ma di poco e comunque la tornata elettorale era di stampo puramente locale. La vita, come dice Charles Bukowski, è questione di sfumature e lo storytelling è tutto, specialmente in un periodo vorticoso come quello attuale. Passata la sbornia però, forse una serie di considerazioni a freddo sono necessarie, non foss’altro per trovare una sorta di coerenza nelle cose, una certa analogia tra il particolare e il generale.

Il centrodestra ha espugnato una roccaforte della sinistra. La qual cosa ha un valore puramente simbolico, ma assume un significato pratico se messa a sistema con tutte le ultime elezioni perse senza soluzione di continuità dai partiti che compongono l’attuale blocco di governo. Tecnicamente però, quando “Giuseppi” afferma che il risultato elettorale non condizionerà gli assetti di maggioranza, afferma una cosa costituzionalmente sacrosanta. Politicamente invece si riduce a fare la parte del figurante finito per caso nella stanza dei bottoni e per nulla intenzionato a schiodare. Uno statista, dopo il tonfo alle Europee, la spy story americana e il fondo di investimento vaticano forse avrebbe tratto delle conclusioni diverse ma non tutti abbiamo lo stesso concetto di dignità, lo stesso senso dell’onore e della decenza. D’altronde, ciò si poteva facilmente arguire dalla disinvoltura con la quale il professor Giuseppe Conte ha dismesso i panni di Premier di una coalizione giallo-verde trovandosi subito a proprio agio nei panni del capo popolo giallo-rosso. È difficile pretendere che uno così disinvolto abbia il senso della vergogna.

Sempre in tema di considerazioni squisitamente politiche, se tecnicamente il Presidente della Repubblica non ha alcun obbligo costituzionale di intervenire ponendo fine all’esperienza di una maggioranza così invisa al popolo, in linea pratica avrebbe potuto intuire (anche prima del risultato umbro) che il Conte bis stava nascendo minoritario nel Paese, per nulla coeso dal punto di vista politico o programmatico e destinato a rimanere immobile nella speranza di non essere sfiduciato a causa delle turbolenze interne alla maggioranza. Quella umbra è solo la dimostrazione plastica di una considerazione di tipo politico ampiamente prevedibile a monte. Ma evidentemente al Quirinale nessuno ha voluto ponderare la realtà. E così ci siamo ritrovati scientemente con un blocco di potere di disperati: chi se non un disperato tenterebbe di mettere insieme in Umbria un cartello elettorale composto per metà dai Cinque Stelle che hanno denunciato il malaffare in seno alla giunta regionale e per metà composto dal Partito Democratico e cioè da coloro che di quella giunta regionale erano i principali artefici. Chiaro che l’orribile accozzaglia dei denuncianti a braccetto con i denunciati abbia fatto imbufalire l’elettorato a tal punto da cancellare elettoralmente i grillini, ridimensionare seccamente i democratici che guidavano la baracca da sempre, consegnando a Matteo Salvini una maggioranza quasi bulgara. Favella significa che, se riportata su scala nazionale, nessuno avrebbe dovuto permettere che i Cinque Stelle – coloro che definivano il Pd un coacervo di mafiosi oltre che il Partito di Bibbiano – si alleassero con coloro che – dopo essere stati sputacchiati – rispondevano escludendo categoricamente possibili alleanze per evidenti distanze di tipo antropologico con i grillini. Forzare la mano, lungi dal calmare le acque limitando i danni, rischia di procrastinare la vittoria di Matteo Salvini rendendola potenzialmente più dirompente ogni giorno che passa. Chi si è asserragliato a Palazzo Chigi tirando a campare proverà prima o poi “l’effetto Umbria” e non sarà bello.

Matteo Renzi ovviamente ringrazia gongolando come se non riuscisse a comprendere che, pur non essendo Francesco Schettino, è comunque a bordo della Costa Concordia che punta verso l’Isola del Giglio. Renzi crede di essere il meglio figo del bigonzo e si aggira con fare spavaldo camminando a gambe larghe come a lasciar intendere di avercele enormi gettando la pietra e nascondendo la mano: lo ha fatto in Umbria e prima ancora lo ha fatto su scala nazionale. In Umbria – con la scusa del partito neonato e non strutturato – ha pensato di non presentarsi alle elezioni come se la figura di palta fosse una questione puramente elettorale e come se nessuno sapesse che la classe dirigente spazzata via in Regione non sia diretta emanazione anche della sua segreteria ai tempi del Pd. Lui non c’era alle elezioni e se c’era dormiva e se non dormiva non era d’accordo con le scelte di chi ha perso. Specchio riflesso, tiè. Anche su scala nazionale, prima ha spinto perché il Partito Democratico facesse un governo con i Cinque Stelle onde poi fare la scissione. La sua intenzione era quella di porsi da un lato come quarta gamba della coalizione che regge il Conte bis e dall’altro come spirito critico che contesta le scelte del governo manco fosse un partito d’opposizione. Lui si sente al governo a sua insaputa e comunque non è d’accordo a prescindere. Nicola Zingaretti senza ritorno, tiè.

La confusione insomma è tanta, gli sciacalli renziani lucrano sull’equivoco e i grillini, i quali sono frastornati anche in condizioni normali, ora sono letteralmente sbigottiti dopo tutte queste batoste. Nel frattempo il Premier si sente Henry Kissinger mentre è solo un “Giuseppi” qualsiasi, un pronunciatore di frasi fatte, un maestro di banalità. Prima che l’effetto Umbria diventi uno tsunami nazionale, forse il Pd, la forza più esperta e senziente della coalizione, dovrebbe staccare la spina. E magari chiedere scusa.

Aggiornato il 30 ottobre 2019 alle ore 11:41